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dieci bozzerenata

di Eleonora Tamburrini

Occhieggia sotto un tratto di portici in Via delle Moline una delle librerie storiche del centro di Bologna; di quella strada che corre a gettarsi nella calca di Via Zamboni la libreria porta anche il nome, e lì un folto pubblico si è radunato sabato scorso per assistere all’Azione 34 a cura di Enzo Campi e Letteratura Necessaria. Un modo, le Azioni, per ricostituire dei nuclei di aggregazione letteraria al di fuori della rete, per riconsegnare la poesia a una dimensione performativa e “resistente” – all’omologazione di un canone imposto, alla marginalizzazione ad opera di un certo sistema editoriale e mediatico, resistente infine nei temi e nelle intenzioni.
L’intervento di apertura è affidato a Renata Morresi, poeta e saggista, che presenta la sua traduzione, la prima italiana, di Rachel Blau DuPlessis, poliedrica autrice statunitense di poesia e critica della poesia o – come vuole la locuzione americana – “poet-critic”, che da trent’anni compone il poema-mondo Drafts (Bozze). “Dieci Bozze” si chiama anche questa antologia, una selezione compiuta all’interno di un’opera volutamente incontenibile nelle forme e nelle definizioni, l’estratto di un discorso in fieri continuamente aggiornabile. A pubblicarlo è la Vydia editore di Macerata, con orgoglio; dopo aver seguito la lunga gestazione di questo libro, vederlo ora presentato qui a Bologna mi convince di quanto la letteratura sia votata a un destino da ponte gettato e legata a immagini di superamento e congiunzione. Qualche riflessione dunque su “Dieci Bozze”, al termine di un pomeriggio di poesia letta e discussa: un tempo ossigenante, uno spazio di contaminazione.
Cos’è in fondo tradurre se non “passare” qualcosa e oltrepassarsi? Comincia da qui il discorso di Renata Morresi con Lorenzo Mari, già autore di un’interessante recensione al volume su Poesia 2.0. Tra le altre l’annosa questione, se un poeta debba e possa tradurre un poeta, se non sia questa la garanzia di un esuberanza del dire e del sentire altrui rispetto all’originale. Per me resta, più che un rischio, la condizione ottimale; d’altronde la traduzione non può sottrarsi al suo essere una prima lettura (con tutte le sue attribuzioni di senso) e una riscrittura. Per lo stile e la poetica di DuPlessis poi, si tratta di una partita necessaria: il collage, l’impasto plurilinguistico, la chiosa del Midrash, l’esplosione dei nessi, l’ironia, l’enfasi sui significanti, tutto concorre all’esaltazione di un significato straripante, e la traduzione non può limitarsi alla restituzione, ma come e più che altrove è chiamata a riflettere su se stessa. Se DuPlessis per prima rinuncia a un soggettivismo assertivo per un io mobile, e se i suoi significati si annidano nelle crepe del non detto, negli interstizi storici del taciuto, nello stupore dell’incomunicabilità, Morresi ripete l’esperienza e se ne appropria, sperimentando su di sé e sulla propria lingua i cortocircuiti attivati dall’originale, declinandoli attraverso echi e prestiti da una tradizione italiana che riunisce Caproni, Zanzotto, Lo Russo, Giovenale, Insana. Se è vero che “da qualche parte tra jouer e jouir sta questo piacere / per le lingue strame” (Bozza 42: Epistola, Studi) è così che Morresi reitera il gioco e il godimento del “nutrirsi” attraverso la parola e la sua rigenerazione interlinguistica. Pur senza dimenticare che “il suo nutrimento trasversale / richiede un dente strano” (Bozza 17: Senza nome).
Questa è dunque una parola che riflette sulla sua impasse, è una poesia dove si deposita il precipitato di altro dalla poesia: il saggio, il racconto, il commento. E a una forma che rifugge l’elegia, che rifiuta spesso la bellezza e qualsiasi tentazione ornamentale (no, non saranno mai questi versi “ricordini kitsch” o “bottoncini madreperla”) corrisponde nei temi un’esplorazione del mondo nel suo farsi. Ci si aspetti con DuPlessis, e grazie a questa traduzione, di essere trascinati in una dimensione “altra”, specie rispetto agli orizzonti più intimi del contemporaneo italiano: è uno spazio potenzialmente sterminato, accordato a una riflessione a tutto campo sull’umano, a suo agio nel respiro disteso di una forma lunga.
Nello stile s’incarnano i soggetti: i silenzi storici sul male, la politica della guerra, l’oblio riservato al marginale – il femminile in primis. E poi la rimozione del trauma epitome del ventesimo secolo, la Shoah, che permea il discorso di DuPlessis in nome e al di là delle sue origini ebraiche, e lo mantiene sempre in bilico tra testimonianza e afasia. Un discorso che ricorda per certi versi e per altre vie i Cantos di Pound e la prosa di Perec, per questa tendenza a proliferare dall’interno verso un’estendibilità potenzialmente infinita, verso un’opera che si vorrebbe rotonda, ma che si espone sempre all’incompiuto.
“La traduzione dice l’indicibile due volte, una in un’altra lingua” sentenzia inesorabile DuPlessis (Bozza 36, Centone): incipit che annichilisce, senza appello che non siano poi gli infiniti tentativi di forzare il dire nelle intercapedini della sua stessa reticenza: la lingua è “evanescenza”, sequenza di “sillabe cineree in Yiddish”, la poesia è “spoèsia”, ma in fondo anche “l’aldidove di qui” che concede a tratti una qualche ammissione, incerta eppure luminosa: “So appena qualche labirinto”. Tradurre diventa la sfida e la sua stessa rappresentazione. In ogni, lettera, segno grafico, spaziatura difforme, si perpetua la memoria, e a momenti di testimonianza scoperta si alternano le epifanie di una metapoetica dolorosa: “Parole senza (ad ogni intento e scopo) / prima e dopo / appese nel vuoto di una perdita / il turbine lento e normale / da dove ruggisce / non avrebbero mai voluto essere tanto perdute / tanto antiparola.” (Bozza 17: Senza nome).
Tanti gli interlocutori che rendono possibile questo dialogo inesauribile, dalla lezione oggettivista di Oppen allo sperimentalismo di Fraser e Silliman, e poi i più o meno esplicitati Celan, Bachmann, Rilke, Dante, e naturalmente Adorno, di cui DuPlessis glossa e scandaglia il celebre assunto sulla poesia dopo Auschwitz come atto di barbarie, raggiungendo forse uno degli apici del suo discorso, almeno in questa raccolta; ancora, gli già citati Pound e Perec. Rispetto a quest’ultimo, mi sembra di individuare una straordinaria comunione di orizzonti, che si trasforma in un’eco magari inconsapevole eppure presente. La parola letteraria come enigma e la fissazione del dire il non detto sono forse le cifre artistiche dell’ebraismo traumatizzato, le ricomposizioni in scrittura di una diaspora irrimediabile, dalla Francia agli Stati Uniti; però è veramente inquietante ritrovare tanto forti certi richiami. In “Bozza 60: Rebus”, già il titolo ci colloca in quella dimensione di enigmistica drammatica che sempre apparterrà a Perec fino al lipogramma estremo de “La Disparition”, romanzo scritto senza la “e” a metafora incruenta di un’altra sistematica eliminazione; è il “DEL” di DuPlessis, “Il nostro DEL è / la nostra resistenza”. Di nuovo: “È strano ora che le Costellazioni siano / come alla rovescia, quasi cascate all’indietro / finite in un altro emisfero: / la doppia W di Cassiopea s’è fatta M, / e sta per miseria e mormorio, / per ninna-nanna mùtila /e mappe di lupi. Perché tanto dolore? / Perché questo impietoso lavorio?”. Siamo anche qui vicini ai totem alfabetici perechiani, e sappiamo quanto la W (che dà anche il titolo a un suo romanzo) diventi per lui fonema dell’indicibile, capovolgimento di una M associata, anche da lui in un gioco di iniziali, alla madre scomparsa (Maman, Mother) e agli stessi nazisti (Meutrier, Murderer). Da qui si potrebbe arrivare al perturbante massimo, la suggestione cinematografica di “M – Il mostro di Dusseldorf” di Lang: qualcuno forse ricorderà la scena della “M” segnata sulla mano e quindi sulla giacca dell’assassino che per un attimo è rovesciata in W; ecco, il passo sarebbe breve, ma non mi lascerò spingere oltre dalle suggestioni, non qui.
Ad ogni modo le fughe rientrano, credo, negli intenti di una scrittura come questa, piena di asperità e lontana dal compiacere il lettore, eppure generosa, in grado di restituire la parola come possibilità, in virtù del vuoto che le appartiene, delle quinte oscure che la accompagnano. Qui si annidano i significati da rinegoziare e la forza per continuare a scrivere, sfuggendo e resistendo a ogni potere che le parole vorrebbe cancellarle, ridurle a margine, omologarle, e magari anche scegliere cosa raccontare e cosa tradurre/tradire, cosa portare al di qua dell’oblio. Dimenticando gli abissi che stanno dietro a ogni “indicibile inenarrabile yod”.

In foto Renata Morresi legge “Dieci bozze” alla Libreria delle Moline, Bologna, 11 maggio 2013