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SALVO2

di Eleonora Tamburrini

A parlare per primo è il boss che agli annunci radiofonici di un’estate apocalittica dice: “spegni”. Si spegne la radio, e con essa ammutoliscono quasi completamente le parole e i dialoghi, specie per i primi, stupefacenti venti o trenta minuti di piano sequenza. Sullo schermo incede lenta e spessa quella che sembra solo una storia di mafia: Palermo, un attentato tra clan, la ritorsione affidata a uno scagnozzo senza scrupoli. Ma qualcosa è destinato ad incepparsi.

Ho assistito a una proiezione speciale di “Salvo”, organizzata al Cinema Giometti di Tolentino per il Festival dell’ospitalità di Adam Accademia delle Arti, con la presenza eccezionale di uno dei due registi, Fabio Grassadonia (l’altro è Antonio Piazza, entrambi alle spalle una lunga carriera come sceneggiatori). L’incontro è stato realizzato con la collaborazione delle OffiCine Mattòli, che da anni ormai si occupano di formazione e produzione cinematografica; a questa realtà in fermento va riconosciuto il merito di creare nessi e incontri come questo oltre a un crescente entusiasmo creativo, dimostrato per l’occasione in un corto proiettato a inizio serata “Assalto #02 – Limoni” (regia di Damiano Giacomelli e Lorenzo Raponi), ultima espressione di una volontà di fare cinema in maniera più pronta ed istantanea, con un girato condensato in due giorni: quasi una presa diretta, un agguato a un’idea fulminante e alla realtà.
La sala è pienissima, e d’altronde “Salvo” è, suo malgrado, quasi una rarità, distribuito in appena quaranta copie dopo una realizzazione a ostacoli, disseminata di rifiuti e ostracismi vari. E pur trattandosi di un’opera prima stiamo parlando dell’unico film italiano che quest’anno ha riscosso l’attenzione della critica a Cannes, guadagnandosi il Prix Rèvèlation e il Grand Prix della Semaine de la Critique.

Di Salvo si potrebbe dire che è lo scagnozzo di un boss, l’ingranaggio perfetto che ogni volta compie il suo giro ordinato su stesso: riceve l’ordine, uccide, ripulisce e se ne va. Ma si direbbe poco. Salvo ha contorni, occhi e presenza da titano. È parte di un tutto monolitico, ma capiamo presto che ne è in qualche modo fuori: non è casuale la scelta di lasciargli la traccia dell’accento originario (l’attore, Saleh Bakhri, è palestinese), misurato nel giro stretto delle sue pochissime battute che sembrano dire sempre “sono altrove”. Lo straniamento è il suo modo di controllare il mondo e sopravvivere: separato e selvatico nella casa dei proprietari di una lavanderia dove si nasconde, meccanico nella sequenza delle sue mani che piegano teste e uccidono. Salvo compie sacrifici umani senza altare a un dio che latita. C’è al massimo la sua incarnazione, il boss, che pontifica e mangia pane secco rinchiuso in un bunker sotterraneo. Ubbidire si può come gli eroi antichi, senza convinzione, rimessi al flusso di un fato incomprensibile: l’empietà si annida nel potere che vacilla e dubita di se stesso.
In una società incancrenita nei riti della forza, solo un incontro può rappresentare se non il cambiamento, la variabile che sfugge, il granello nell’ingranaggio. Quando Salvo trova Rita, una ragazza cieca sorella della sua ultima vittima, non la uccide, ma la porta via e la nasconde in un capannone. Nel momento dell’aggressione, che per la prima volta non culmina in omicidio, Rita comincia a riacquistare la vista. È come se si aprisse una crepa nella città pietrificata, e Salvo appare come un semidio tremendo, capace con la sola imposizione delle mani di dispensare morte e miracoli; nel frattempo la sceneggiatura e la regia virano dal taglio noir alla Melville del magnifico piano sequenza iniziale a un genere misto che include registri thriller, grotteschi, perfino western.
Mentre due diverse forme di cecità e di esclusione dal mondo si incontrano portandosi dietro un’ipotesi di soluzione, l’ambiente intorno è una Sicilia che si sottrae ai cieli cobalto e preferisce la secchezza degli interni di Mario Dentici, nella ricostruzione di luoghi abbandonati e case (come quella della coppia che ospita Salvo) in cui la carta da parati logora anni settanta garantisce lo straniamento e a tratti una specie di deriva optical. Fuori, sono memorabili alcuni paesaggi attorno al capannone abbandonato dove Salvo nasconde Rita: i registi scelgono i rilievi di Enna per ritagliare scenari scabri e selvaggi che la fotografia di Daniele Ciprì investe di luce livida. Si fa notare anche la cura maniacale per il suono: Grassadonia ci racconta che Guillaume Sciama, tecnico del suono anche per Haneke, ha girato Palermo e raccolto un sonoro di rombi di motorino, carcasse metalliche che sbattono, cigolii, urla, sospiri, che assieme ad altro materiale costruito in studio costruiscono l’idea di un “fuori” o suggeriscono l’azione anche quando non si vede. Nessun accompagnamento musicale esterno, solo una stessa canzone che riaffiora dalla radio in alcuni momenti chiave.
Appare perfetta anche la scelta dei due attori protagonisti: non solo Saleh Bakhri che colpisce per forza e presenza scenica, ma anche l’esordiente Sara Serraiocco che affronta il ruolo di Rita dopo mesi a contatto con persone non vedenti, guadagnando una gamma incredibile di accenti e contrazioni nella mimica facciale. L’esito è sorprendente soprattutto nel piano sequenza iniziale, con Rita che percepisce la presenza in casa di Salvo venuto per uccidere e cerca di nascondere il terrore in una ripetizione misuratissima di gesti abituali.
Presenza impeccabile pure quelle di Luigi Lo Cascio nel ruolo del proprietario della lavanderia che nasconde Salvo e vive succube della moglie, intrappolato anche lui in un teatro di gesti e riverenze da tributare al potere che spaventa e attrae. Così ogni pasto servito all’ospite non può essere consumato come gioiosa religione, ma è sempre una gabbia, un rito ossessivo, non meno della cena mortifera nel rifugio del boss. Un trepido spiraglio si intravede quando Salvo e il suo ospite mangiano per l’unica volta insieme, in cucina, una scatoletta di tonno: in entrambi luccica qualcosa, un ricordo di umanità. D’altronde anche il solo momento di intimità tra Salvo e Rita si raffigura in un pasto mangiato lentamente, con gli occhi di entrambi come normalizzati, salvati dalla fissità, in un’aria che rinuncia alla rarefazione e per un po’ si lascia riempire dalla tenerezza.
Il risultato complessivo è un film di raro equilibrio: la cura tecnica evidente, gli espedienti narrativi, le metafore che allineano forma e sostanza (la cecità in primis), non si ripiegano in autocompiacimento e la secchezza dello stile non diventa posa. In questo scenario implacabile da tragedia greca emerge un sentimento di fiera commozione che nel finale convince senza forzature.

Per tutto questo e per il tanto ancora che non sarebbe giusto raccontare qui, appare incredibile (eppure comune) la sequela di intralci e difficoltà che questo film ha incontrato in fase di realizzazione e tutt’ora sconta in termini di distribuzione in Italia, nonostante i premi e i riconoscimenti internazionali ottenuti. Un film questo che, ci racconta il regista, è stato girato solo grazie al supporto di una produzione francese, mentre si sono ampiamente smarcate le televisioni italiane, salvo proporre condizioni inaccettabili come il diritto di scelta sugli attori per i due ruoli protagonisti. Un film girato a un costo relativamente basso che ancora attende parte dei finanziamenti accordati e che langue nel doppio scacco che spetta agli artisti e ai promotori di cultura indipendente: fare i conti con fondi stretti e non potersi poi realmente misurare con un pubblico, limitati da una promozione minima e da una distribuzione ridotta o che non c’è.
Al di là di festival ostinati e di iniziative isolate come questa, dovremmo chiederci quanti sono i film che ci perdiamo, che transitano pochi giorni nei cinema di città e disertano le sale di provincia, acclamati magari nel paradosso di una croisette. Quanti lavori meritevoli di essere visti si annidano in questo sottobosco, e quanti aspettano di uscire?

(Saleh Bakhri in “Salvo”)