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Francesco Accattoli, Il fruscio secco della luce, L'Adamo, L'Adamo web mag, marco di pasquale, Vydia editore
di Francesco Accattoli
Ricordava già Eugenio Montale la fondamentale importanza del vederci bene, in quella poesia dedicata alla sua Drusilla Tanzi, per gli amici Mosca, così soprannominata per via dei suoi spessi occhiali. Nel percorso conoscitivo dell’esistenza, conclude Montale nella lirica, non serve la piena efficienza delle facoltà visive, perché, e a condizione che, i nostri occhi conservino l’istinto a decifrare.
Con l’edizione riveduta e ampliata de “Il fruscio secco della luce” appena uscita per la marchigiana Vydia Editore, Marco Di Pasquale si presenta al pubblico con una raccolta organica e coerente nel suo procedere per cronologia di composizione, un percorso biografico di conoscenza che affida proprio all’elemento visivo la sua missione, e cioè arrivare all’intima comprensione del sotteso, all’intuizione eidetica secondo Husserl.
Scrive Di Pasquale nell’Epilogo “vengo a capire se ancora luce c’è/ per spiegare un abbraccio”, ultimi versi dell’ultima sezione del libro, come a dire un patto con i lettore che rafforza ulteriormente l’idea dell’autore sul ruolo della poesia e sulla sua finalità, il suo “scopo”, come più volte ama ripetere (Tutto il giorno in auto).
La cecità serve paradossalmente, nell’estremo sforzo “a scovare significati” (Fino a cecità), e l’atto più cristallino cui è chiamato il poeta è quello di chiudere gli occhi, per avere il buio totale e riassettare così i parametri della conoscenza, “non basta l’ombra a cancellare la sete” – scrive Di Pasquale – “solo serrare le palpebre e decidere di esistere altrove” (Disagio dell’altrove), dove “l’altrove” è uno spazio che non coincide mai con quello abitato della moltitudine, quello abbagliante che rende “gli occhi miopi/ per policromia” (Al buio scompare): lo spazio rivendicato dal poesia – e dal poeta – lo si conquista indovinando “il tempo al di là della strada” (Rifiuto della lotta). E dunque ciechi, alla maniera di Tiresia, a volte inadeguati, e però mai disarmati, il nostro cammino, la nostra storia di uomini non ha il passo sicuro e sprezzante, anzi “ci attende una storia/ affamata di errori di traiettoria”, una resa alla fallibilità che invece di umiliare, diventa strumento prezioso di consapevolezza. L’umanità non ha bisogno di calcoli per proseguire nel suo percorso evolutivo, nessuna coordinata né tantomeno “grafici insolenti”, semmai il contatto, fisico, epidermico: “è sciocco sondare i passi appena tracciati/ quanto interpretare fulmini e scongiurare la pioggia/ non così puntuale: / fidiamoci ancora del miracolo/ della moltiplicazione delle carezze”.
La pelle diventa così un territorio di dialogo, di sopportazione anche (“s’apprezza meglio il contorno dei giorni/ quando la luce filtra sotto la pelle e richiama/ fatiche fiorite in sorrisi, Disagio dell’altrove), di condivisione (“pelli di mani sfrega/ ci si riconosce e apprezza”, Al buio scompare), di amore infine (“io credo alla pelle dell’amore”, La pelle dell’amore).
Se la cecità conduce all’illuminazione, o per lo meno a ciò essa tende, il tema della luce, che si svela già dal titolo, si declina in maniera costante lungo tutto il percorso cronologico della raccolta e si figura come una presenza lenitiva – per non dire salvifica – delle frustrazioni, degli smarrimenti del quotidiano. La sinestesia che distingue il verso-titolo è una felicissima soluzione che già nel suo incedere sghembo rivela la personalità poetica di Di Pasquale, a cui piace infilare nello spartito della sua melodia quasi sempre armoniosa piccole dissonanze, brevi inciampi che offrano un sussulto al lettore. La luce è un fruscio, un suono sottile, un poco sordo, che partecipa della volontà d’indagine del poeta, si fa strada dove apparentemente non ce n’è, “scantonando dietro le pupille/ al bordo d’impressoni” (Accettare l’inverno), si fa spazio filtrando da sotto la pelle, sino alla più intensa delle dichiarazioni di poetica presenti nella raccolta: “da un inceppo della nebbia/ è traboccato uno sgorgo di luce” (In un mattino d’indugi).
Se l’incrocio con la comunità che popola il quotidiano produce un senso orticante, “coi visi grinzosi per geli e gelosie paesane/ per escoriazioni pettegole da bocche taglienti” (A volte si torna illesi), nelle giornate di lavoro, sull’autobus o in automobile, persino un senso di compatimento (“il resto è placca di superficie”), esiste l’amore, che anzi, nelle sue molteplici declinazioni, è un tema cardine della raccolta. Nelle sezioni centrali, Il fruscio secco della luce e Metrica della storia, il dialogo del poeta si rivolge ad un interlocutore, o meglio ad un destinatario, femminile dai gesti reali, concreti. La vita di coppia è fatta di strappi, “rovina sui giorni/ sommergendo fiori e angoli-cottura” (La pelle dell’amore), è segnata da eccessi di foga ed errori di valutazione, eppure, nella eccezionalità che solo l’incontro tra due persone esiste, Di Pasquale scrive la sua professione di fede, “tutto può avverarsi, anche l’amore” (La mattina dei morti). Una coloritura che oltrepassa i riferimenti lirici delle classicità e si posiziona all’interno di un dettato quotidiano comune, lo fa in maniera credibile, e dove anche sembri idealizzare la figura femminile (straordinaria per misura Pelle di luna oscura), quest’ultima si affaccia nella vita dell’io poetante con assoluta credibilità, ne lenisce le ferite, ne colma le mancanze, ne rigenera la vita (“ricadendo senza minima vergogna/ dove l’orma era disseccata/ a bagnare di lacrime i bordi/ hanno pensato i tuoi gesti gentili”, Nello sguardo a dita tese).
Il richiamo alla gentilezza, così come i riferimenti a siepi e dì di festa, dicono che Di Pasquale non è poeta dell’immediato, dell’estemporaneo, nei suoi versi, oltre al già citato Montale, riecheggiano i poeti della tradizione, dai toscani a Leopardi, sino a Vittorio Sereni de Gli strumenti umani. Eppure la voce di Marco Di Pasquale è riconoscibile e peculiare nel suo lavoro sulla lingua, nella sintassi e nella scelta del lessico. La ricerca delle melodia, come si è già detto, si anima di improvvise sfasature, di contrazioni sintattiche o al contrario di allungamenti del discorso che superano di gran lunga il verso come limite di senso, creando un andamento vorticoso e perciò spiazzante. L’uso cospicuo dell’aggettivazione e la frequente presenza di coppie di verbi (riconosce e apprezza; circonda e respinge; arrossisce e tramonta; per citarne alcuni) rivelano una volontà descrittiva che non vuole lasciare niente al caso, che si preoccupa di dire ogni coloritura, ogni sfumatura tonale, e rendere iconico ogni gesto. Il vocabolario di Marco Di Pasquale, come si è già detto, recupera lezioni del passato e le riusa accanto a termini della contemporaneità, e cioè non si preoccupa di attingere dal repertorio dell’italiano aulico (fole, erratiche, stormisce, tangere, brume…) ed allo stesso tempo di usare linguaggi della scienza (agglomera) e del registro colloquiale, mediante un atteggiamento eclettico che contribuisce fortemente a determinare la particolarità della sua poesia.
Marco Di Pasquale rivela una cifra riconoscibile, anche nella scelta su dove posizionarsi nei confronti del fare poesia oggi: anche se “ le muse hanno fatto i bagagli” e “persiste l’aria tossica di fritto” (Le muse hanno fatto i bagagli), il poeta, “biglia incredula del destino”, è e resiste come soggetto etico, la missione del fare poesia oggi, nonostante il chiaro abbrutimento culturale e civile della civiltà occidentale, resta quella di porsi eticamente nei riguardi dell’esperienza umana.
Per farlo, Di Pasquale usa l’arma dell’analogia (su tutte la meravigliosa “sparite le fosse di silenzio dagli occhi”) e della sinestesia, figura retorica questa che implica il coinvolgimento di più sensi, senza possibilità di opporvisi, di restare passivi.
Il poeta, per Marco Di Pasquale, deve possedere orgoglio e coscienza di sé, può indietreggiare, sebbene “si rischi ombra d’oblio”, per poi “avvicinarsi senza spingere all’uscita” (Rifiuto alla lotta), ma il premio che lo attende è uno spazio di intensa umanità, “al di là della strada”, è la ricetta che svela l’antidoto, la luce che riesce ovunque a filtrare.
(fotografia di Mario Giacomelli, da “Omaggio a Spoon River”- www.mariogiacomelli.it)
Emozionante fino alla commozione questa lettura minuziosa e concentrata del libro che sto guardando crescere come un figlio.
Non potrò mai ringraziarti abbastanza, caro Francesco, soprattutto per aver centrato e così ben analizzato le tematiche che sostanziano le fondamenta della mia scrittura.
Riguardo ai rimandi ed ai numi tutelari, non posso che sentirmi lusingato!
Grazie, grazie ancora.
mdp
L’ha ribloggato su Il fruscio secco della lucee ha commentato:
… quando ti ricapitano davanti le gioie preziose…