Tag

, , , , , , , , ,

da facebook

di Camilla Domenella

Nell’aula magna dell’Università di Macerata, Gherardo Colombo scardina le regole tacite delle formalità conferenziere. Colombo s’alza in piedi, afferra il microfono, fa il giro della cattedra, e s’impone, determinato, in mezzo alla platea: “voglio sapere qual è il vostro sentimento nei confronti delle regole.”

Esordisce così l’anti-lectio magistralis di Gherardo Colombo. L’ex magistrato, noto per aver condotto inchieste celebri come quelle sulla Loggia P2, Lodo Mondadori, Sme, Mani Pulite, è stato protagonista dell’iniziativa “Per una cultura della legalità”, organizzata dalla Provincia di Macerata insieme all’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea “M. Morbiducci”, e all’Anpi, con la collaborazione della Prefettura, del Comune e dell’Università. La conferenza si è tenuta lo scorso martedì 21 maggio, primo appuntamento di una serie di iniziative ed eventi dedicati ai futuri festeggiamenti del 2 Giugno, 67° anniversario della Repubblica Italiana.

L’aula magna, martedì, ospitava una platea numerosa ed eterogenea: giornalisti, professori, magistrati, e soprattutto studenti. “Su, voglio sapere, allora, cos’è una regola”. Colombo, con provocazione maieutica, esorta il pubblico a diventare interlocutore. Si muove tra le poltrone interpellando gli astanti con l’aria di un fomentatore di folle. La mano tra i capelli alla Einstein e il microfono puntato a indicare il prossimo imputato.
Si azzardano risposte, prima timide, poi sicure, poi rapide e sovrapposte: la regola è un obbligo, la regola è un divieto, la regola è una garanzia, una restrizione, una costrizione, una convinzione, un’interdizione, un’imposizione…! Stop!
E’ palese come la regola venga puntualmente connotata da un’accezione negativa. L’interpretazione di “regola” come sinonimo di obbligo o divieto comporta una reazione emotiva tutt’altro che positiva di fronte ad essa: la regola è qualcosa da trasgredire, da evitare, o, nel migliore dei casi, da rispettare, ma come fosse un’imposizione esterna cui non si possa far altro che obbedire. La regola sembra imporre limitazioni alla nostra libertà. Ma attenzione: sembra.
E’ nella errata concezione di regola, che, secondo Colombo, si annida il male che conduce all’illegalità. “La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo comprendono tendono a eludere le norme, quando le vedono faticose, e a violarle, quando non rispondono alla loro volontà” è quanto, non a caso, scriveva nel 2008, nel saggio “Sulle regole”.

La riflessione che Colombo porta energicamente avanti non è una riflessione sul contenuto delle regole, ma piuttosto sulla forma e il motivo delle stesse. E’ la loro formulazione a gestire i contenuti. “La nostra Costituzione non è un insieme di obblighi, ma di regole, che portano diritti.” Ogni articolo costituzionale è un’affermazione di princìpi, non una negazione di possibilità: “nella Costituzione, i doveri sono appendici dei diritti.”
Colombo intraprende poi un breve excursus storico. Espone come, storicamente, le società si siano costituite in base al princpio della discriminazione. Le gerarchie sociali si fondavano – si fondano in parte tuttora – sulla convinzione che non tutte le persone sono ugualmente importanti. “La nostra Costituzione rovescia questo principio!” Essa nasce infatti all’indomani del decreto legge del ’45 che sancisce il suffragio universale: per la prima volta nella storia italiana le donne vengono chiamate a votare, e a decidere, alla pari degli uomini, sul futuro della loro stessa nazione.
L’articolo 3 della Costituzione recita: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. E Colombo, più da filosofo che da giurista, concede la sua personale interpretazione: “per me, questo Articolo, andrebbe letto così: siccome tutti i cittadini hanno pari dignità, allora la legge è uguale per tutti; siccome tutti i cittadini hanno pari dignità, allora non si fanno distinzioni di sesso, di razza, di religione. Se deve esservi una gerarchia, l’unica sarebbe questa: la persona al vertice, poi i diritti, e alla base, le pari opportunità.” Persino la Legge, per Colombo, è asservita alla dignità. Se la prima si dimentica di questa, non è Giustizia.
E’ su questo che Gherardo Colombo vuol far ragionare: sugli schemi con cui sono costruite le regole, su quelle che in apparenza sembrano sfumature, ma che in realtà sono le tinte forti della nostra adesione alle norme. Ma, come malinconicamente afferma lui stesso, “il sistema della Costituzione è ancora sconosciuto.” Per cambiare, non bisogna modificare una legge, ma il nostro modo di ragionare di fronte a quella.

Incalzato da alcuni studenti, l’ex magistrato snocciola poi alcune sue opinioni: “l’Italia è ingovernabile perché le persone continuano a ragionare secondo gli schemi di prima”. C’è un bagaglio del passato che occupa, d’impiccio, lo spazio del presente: le generazioni attuali educano in base all’educazione delle generazioni precedenti, trascinando stancamente il baule di obsolete formae mentis e modi vivendi. Colombo punzecchia lo studente: ” Quanti anni hanno i tuoi professori? Quarant’anni? Cinquanta?
La legge del Codice Civile che prevedeva che il capofamiglia potesse essere soltanto l’uomo, il padre e marito, è stata abrogata soltanto nel 1975: solo quarant’anni fa. Significa che chi ti educa, ti educa secondo questo vecchio schema, perché così è stato educato a sua volta.” Quel che Colombo intende dire, forse, è che non possiamo, no, rinnegare il passato, da un giorno all’altro, di punto in bianco, ma non possiamo neppure applicarlo, così rigido com’è, ad un presente liquido come il nostro. Dobbiamo forse tenere a mente che accettare l’eredità del passato è ben diverso dal sostituirla alle ricchezze del presente.

I cambiamenti sono indispensabili. Ma ci vuole tempo per cambiare, e ci vuole fatica. La fatica, ricorda l’ex magistrato, è necessaria, e anzi, è quasi catartica. “La prima fatica”, afferma Colombo, “è la conoscenza”. Studiare, sapere, acquisire competenze sono le prime innegabili fatiche, che però sono anche le sole a condurre alla Libertà. “Cosa può fare un neonato? Ditemi in cosa è libero un neonato! Al massimo, di lamentarsi. Non è libero di fare altro perché non ha acquisito nessuna competenza”.
“Quanta fatica hai fatto per imparare a camminare? Eh? Tanta! Ma ora sei libero di andare dove vuoi”, scherza Colombo con uno studente. La libertà, intesa come possibilità di scelta, aumenta in relazione alle competenze acquisite; la fatica fatta per acquisirle non è che un piccolo prezzo da pagare alla libertà.
Conoscere ha la stessa estensione di essere liberi.

Solo la cultura può essere il terreno fertile della legalità, perchè costruisce l’uomo, lo plasma all’esistenza, ne smussa gli spigoli; lo inserisce in un contesto sociale, lo pone come rapporto, come inter-esse.
Conclude, sinteticamente, Colombo: “Se si vuole cambiare, sono importanti quattro cose: chiarezza, coerenza, impegno, partecipazione.” Non è poco, ma non servirebbe altro se riuscissimo a convincerci che cultura e legalità sono sinonimi.

(foto da facebook.com)