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miniera

di Nicoletta Corneli

Giovedì sera, nella città lavata da una pioggia incessante, due voci chiare e limpide hanno rischiarato la notte.
All’interno dell’evento “Licenze Poetiche. XII Festival Internazionale di poesia aggiornata”, nella cornice della meravigliosa sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi-Borgetti di Macerata ho assistito ad un incontro tra due talentuose poetesse, Nadia Agustoni e Azzurra D’Agostino le quali, nonostante le diverse prospettive di vita, hanno creato una magia che ha tenuto il pubblico, venuto ad ascoltare, inchiodato alle sedie quasi come ipnotizzato.
Introdotte da una eccellente apertura di Renata Morresi, che si è fatta ponte tra due microcosmi, le scrittrici attraverso la lettura dei loro brani ci hanno di fatto preso per mano e trasportato nelle loro evocazioni fatte di immagini rurali e silvestri per Azzurra e di realtà urbane e di cemento per Nadia.
Entrambe “cantano” dell’uomo, della sua condizione di sofferenza e di precarietà nella vita, ma mentre Azzurra ci permette di cullarci in atmosfere, solo apparentemente, luminose, Nadia sin da subito ci toglie la possibilità di illusione e ci racconta la vita nella “paura del temporale” e non ci dà scampo, perché “la poesia è poesia” e nell’intelligenza della parola vi è anche la necessaria onestà di trasmetterla. Nadia Agustoni, definita come una “minatrice”, perché scava senza tregua e senza compiangimenti nella vita dell’uomo, ci introduce nel suo ultimo lavoro “Il mondo nelle cose” facendoci conoscere Robinson Crusoe e Venerdì in una veste metropolitana e aggiornata.
Vedendo il primo, come un uomo in crisi di identità, che, nonostante la voce spezzata e il corpo segnato dal lavoro, riesce a trarre qualcosa di vitale da questa sua condizione di estrema sofferenza interiore, mentre Venerdì è trasformato in un esule e rappresenta il mondo che non c’è, quel mondo fatto di luoghi estranei ma allo stesso familiari per chi come lui conduce una vita da nomade alla ricerca del lavoro. In questo libro, strutturato come un poema, i due non si incontrano mai, non intrattengono una relazione, ma descrivono due modi di vivere e vanno a chiudere una sorta di “trilogia” iniziata dalla scrittrice con la pubblicazione del “Taccuino nero” che raccontava della realtà della fabbrica e del lavoro “Peso di Pianura” sulla devastazione del nostro paese.
Una poesia di stampo civile e politico quella di Nadia che però si arricchisce di una notevole potenza della parola, pensata, pesata e vissuta, almeno così sembra a chi l’ascolta, sulla propria pelle, perché Nadia sa essere chiunque stia soffrendo, e nel suo viso scavato e nei suoi occhi attenti e gravi si legge la vita.
L’effetto immediato di Azzurra e della sua poesia invece è quello della morbidezza e della luminosità, perché le scene che vengono evocate sono quelle che lei stessa, passeggiando con il cane tra i boschi dell’Appennino Tosco-Emiliano, contempla, ma la sua è una solarità più apparente che reale e nonostante la voce molto musicale, la poesia è carica di uno spleen malinconico e di riflessioni tutt’altro che distensive.
Azzurra racconta, attraverso la lettura di suoi brani inediti, di casolari abbandonati, di una volatile presenza umana che alla fine ritorna alla Terra poiché non si sopravvive alle cose.
Si crogiola in immagini molto semplici di vita contadina, fatte di piccoli dipinti ad olio, dove una donna prepara da mangiare o un giovane si abbandona all’amore, ma tutto questo è sovrastato da domande incalzanti come quelle che farebbe un bambino, che trasmettono quel senso di precarietà, quel dubbio che tutto passa e finisce e ciò che resta sono solo “resti” appunto di una vita vissuta e conclusa.
Ed ecco quindi riemergere sinuoso e terribile l’assedio della nostalgia e del dolore che in questa poetica ci sorprende, poiché arriva alle spalle e sottovoce.
Dopo queste letture, Renata Morresi invita ad alcune riflessioni, lanciando piccole provocazioni, quasi a rompere l’atmosfera di sospensione che si era creata con i brani delle poetesse, e si apre un dibattito molto informale con il pubblico. Tanto altro da scrivere, poiché Nadia e Azzurra sono due microcosmi che raccontano il macrocosmo della sofferenza umana, con versi che cullano e schiaffeggiano, che fanno sorridere ma lasciano l’amaro di un sorriso a metà perché la certezza del nostro essere vulnerabili e finiti è sempre ribadita.
Nadia termina leggendo un brano dove vengono elencate tante morti e tante vittime conosciute e sconosciute dal dopoguerra ai giorni nostri, e in questo inarrestabile elenco descritto con rispetto e calma, quello che colpisce è la vittima senza nome, che ogni tanto viene citata, perché potevo essere io, o potevi essere tu quella madre che si dà fuoco perché non riesce più a vivere nella povertà.

(Foto di Nicoletta Corneli)