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di Andrea Ferroni

In questa rubrica mensile, passando attraverso le domande che ci facciamo e i problemi che viviamo, mi metto in dialogo con qualcuno per ricercare insieme un senso nell’esistenza quotidiana. Come a volte fa il consulente filosofico, vorrei tentare di prendere spunto dagli interrogativi che nascono dalla lettura di testi o da incontri e conversazioni fortuite affinché diventino questioni aperte che interrogano ognuno di noi. Nel proporre una risposta non intendo certo dare sentenze definitive: offro il mio contributo ad una riflessione comune.

La domanda di marzo:
È il mese della primavera. La natura si risveglia. Chiuso in macchina a chiacchierare con Sergio, capita che parliamo di politica. E quindi del nuovo Governo. Sergio, che è sveglio, mi dice parole che mi scuotono dal letargo invernale. Mi ricorda una cosa che sapevo: la sinistra, nella sua essenza, sostiene che non c’è conciliazione tra capitale e lavoro. Ciò non toglie che, al momento, io preferisca sperare in quel che c’è, ma mi viene il dubbio che la mia speranza si fondi sul mio non saper più nemmeno immaginare qualcosa di diverso. E comunque, per un attimo, per associazione, per flash back, torno indietro nel tempo ad una discussione con Manuel, quando dopo aver ascoltato il regista e scrittore Silvano Agosti, ci interrogavamo sul nostro essere corresponsabili del sistema che criticavamo. Ci si chiedeva semplicemente e radicalmente: ”LO SCHIAVO È COMPLICE?”.

La (non) risposta:
Silvano Agosti, in una famosa intervista che gira in Internet (ad esempio qui) con il titolo Il discorso tipico dello schiavo dà già una risposta interessante: lo schiavo è quello che non sa più nemmeno immaginarsi la libertà. Ecco, sulla libertà e se sia davvero possibile essere liberi ci sarebbe da aprire una parentesi grande come una casa, ma per il momento soprassediamo e concentriamoci su un altro aspetto.
E quindi sì, lo schiavo è complice. A meno che non si chiami Epitteto, però! (e ne approfitto per mettere giù qualche riga su questo filosofo stoico, che nelle vita fu anche schiavo).
Di Epitteto si tramanda questo episodio in cui lo si vede punito fisicamente dal padrone: Epitteto avvisa: “Così mi romperai la gamba”. Il padrone continua e la gamba si rompe. Al che, il filosofo, senza cambiare tono di voce: ”Te l’avevo detto che si sarebbe rotta”.
Questa, invece, è una sua massima che ritengo interessante: “Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi: il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche e, in una parola, tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri. Ricordati dunque che, se credi che le cose che sono per natura in uno stato di schiavitù siano libere e che le cose che ti sono estranee siano tue, sarai ostacolato nell’agire, ti troverai in uno stato di tristezza e di inquietudine, e rimprovererai Dio e gli uomini. Se al contrario pensi che sia tuo solo ciò che è tuo, e che ciò che ti è estraneo – come in effetti è – ti sia estraneo, nessuno potrà più esercitare alcuna costrizione su di te, nessuno potrà più ostacolarti, non muoverai più rimproveri a nessuno, non accuserai più nessuno, non farai più nulla contro la tua volontà, nessuno ti danneggerà, non avrai più nemici, perché non subirai più alcun danno”.
Un’ultima citazione, una di quelle che preferisco: “Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”.
Facciamo un minuto di silenzio.
Ok, ora torniamo all’immaginazione, al fatto che, come si diceva poc’anzi, lo schiavo è quello che non sa più nemmeno immaginarsi la libertà. E chi ce la toglie questa immaginazione? Il “sistema” o qualcosa dentro di noi? Beh, a sentire l’appena citato Epitteto, che visse in tempi in cui il sistema si chiamava Nerone, non ci sono dubbi: la libertà riguarda solo ciò che dipende da noi e nessuno è libero se non è padrone di se stesso.
Ma dentro questo “se stesso” cosa c’è? Se pensiamo al discorso delle definizioni della scorsa rubrica, potrei chiedere: “Chi sei tu?”. Ecco, forse, se sai dare una definizione di te stesso che ti soddisfi e ti renda autentico, allora sai immaginarti libero, ma se dici “io sono un architetto”, “io sono un operaio”, “io sono uno studente”, ecc., allora, ci sono probabilità che tu abbia dato di te stesso una bella definizione ingabbiante. E non conta se lo dici con orgoglio (perché magari sei avvocato) o con riserbo (perché magari sei disoccupato). Non è questo il punto, perché le gabbie possono essere anche dorate, come si sa.
Che poi, a ben pensarci, anche se dici “io sono Sergio” o “io sono Manuel”, stai comunque dando una definizione che è solo flebile apparenza: un nome che ricopre con un velo superficiale quel qualcosa che permane sotto e chissà cos’è. E avrai l’illusione tranquillizzante di avere un nome e una professione che ti danno una base su cui stare in piedi. Come Spinoza suggerisce, una definizione non dirà mai ciò che sei, ma solo ciò che non sei; ritaglierà dei confini più o meno arbitrari in un terreno comune e riconosciuto. Con un nome e una professione diventiamo dei modi di esprimerci.
“Imbecille, tu non sei questo!”.
È la risposta di un vecchio saggio indiano a chi gli si era presentato davanti con vergogna e timidezza perché sapeva di non essere ricco e di non avere una professione ritenuta socialmente stimabile.
Caro Manuel, tu non sei questo o quello, e ogni volta che dirai di essere questo o quello, sarai un imbecille complice del tuo non essere libero.
Forse ci vuole una personalità spaziosa. Forse occorre fare spazio e ritrovare dentro di noi il luogo ospitale per dare alloggio a tante cose, tante idee del mondo e tante idee di noi stessi. Ci vuole una personalità multipla, molto accogliente, per far germogliare tanti semi. Una personalità primaverile. E allora beccati questa domanda finale: un grande uomo è un uomo vuoto?

(René Magritte, The pilgrim)