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di Andrea Ferroni
In questa rubrica mensile mi rivelo come consulente filosofico, come colui, cioè, che ricerca insieme a un’altra persona se è possibile reperire un senso nella nostra esistenza quotidiana (che passa anche attraverso le domande che ci facciamo e i problemi che viviamo). Vorrei tentare, quindi, di considerare le domande che si generano dalla lettura dei testi o da incontri e dialoghi fortuiti affinché siano uno spunto per una discussione, come delle questioni aperte che interrogano non solo chi le ha poste ma anche me direttamente e chiunque le legga. E nel proporre una risposta non intendo certo dare sentenze definitive ma offrire soltanto il mio contributo ad una riflessione comune.
La domanda di febbraio:
Mia figlia fa domande difficili: “Papà, perché febbraio ha 28 giorni?”. Ehm… Prendo tempo… Ripenso al fatto che a suo tempo me lo sono chiesto anch’io. E nessuno mi ha mai risposto. Mi hanno detto come mai ogni 4 anni febbraio deve avere 29 giorni e ora questo saprei spiegarlo a mia volta. Ma perché febbraio ha 28 giorni? E perché non ho mai più voluto approfondire la risposta? Perché mi sento a disagio davanti a questa domanda?
Alessandro, che intuisce ogni cosa subito e poeticamente, ha già capito che si riduce tutto alla questione della convenzionalità, dei confini, del bisogno umano di definire e delimitare. E quindi, con nonchalance, mi traduce la domanda di mia figlia chiedendomi a bruciapelo: “SIAMO SEMPRE ALLA RICERCA DEI LIMITI?”
La (non) risposta:
Caro Alessandro, è inutile che fai tanto il tranquillo: la domanda è complessa. E poi, adesso che ci penso, è molto ambigua. (Questa cosa per me ha un senso molto positivo, perché mi dà modo di spaziare anche al di fuori di quel che tu -mannaggia a te- già saprai per intuizione).
Va be’, faccio finta che tu non sai. Faccio finta di rispondere a mia figlia. E so che sto provando a rispondere a me stesso.
Cos’è un limite? Mi viene in mente Spinoza, un filosofo del ‘600. Lui risponderebbe che è una negazione. Nel senso che, se metto un limite, è come se dicessi: qua NON è più quel che era prima; ho tolto una parte dal tutto e gli ho messo un confine, magari dandogli un nome.
Facciamo ordine: cos’è che non ha limiti? Il tutto. E cos’è il tutto? Beh… Il tutto è tutto, è l’indistinto che precede ogni cosa determinata. Lo puoi anche chiamare Universo, ma senza intenderlo come galassie, pianeti, stelle, ecc.. Allora sarebbe meglio dire lo spazio. Ma forse anche lo spazio potrebbe già dare l’idea di qualcosa di esteso. Se devo trovare una cosa che non ha limiti, è meglio trovare un che di indefinito che contenga anche lo spazio.
E quindi ecco: il vuoto! Nel vuoto, del resto, c’è spazio.
In questo vuoto indistinto, cioè all’interno del Tutto, quando se ne avverte la presenza, credo che l’uomo rimanga affascinato, ma anche impaurito, percependo, da un lato, la gioia del sentirsi parte di qualcosa di più grande e, dall’altro, avendo il bisogno di individuarsi, di distinguersi. Quando si percepisce questo Vuoto-Tutto originario e indifferenziato, si coglie l’immersione in un’eternità. Ci si sente anche persi, a volte, un po’ come quando si contempla un panorama vastissimo dall’alto di una montagna. Per distinguersi, per ritrovarsi, per comunicare o chissà per quale altro motivo l’uomo ha cominciato a darsi dei confini (tra sé e l’altro, per esempio) e a dare delle definizioni (questo è così), a fare delle differenze (questo è diverso da quello). Confini, definizioni e differenze sono nient’altro che limiti, tracciati psicologici, ideali e linguistici che diamo al tutto (alla realtà illimitata) per comprenderlo nell’unico modo che abbiamo: dandogli significati (personali o condivisi), cioè definizioni, appunto.
Anche quando siamo innamorati e diciamo un trasognato “ti amo” a una persona è come se mettessimo dei confini: stiamo dicendo che io e quella persona siamo una coppia diversa da tutti gli altri, siamo innamorati e non c’è posto per gli altri, che rimangono fuori da quel particolare amore. Ci delimitiamo uno spazio tutto nostro: due cuori e una capanna.
Adesso possiamo tornare a Spinoza, quando dice: “Ogni determinazione è una negazione”. Effettivamente, se ci pensi bene, Alessandro, definendo o delimitando, non diciamo cos’è una cosa, ma solo cosa non è, cioè la separiamo (anche un po’ arbitrariamente) dal tutto in cui è. Ecco perché, secondo Spinoza, ogni definizione è una negazione. Ogni affermazione di individualità nega lo sfondo da cui si staglia, ma per ciò stesso lo implica come negazione.
Un esempio? Di fronte a te c’è un albero. Ma c’è anche il cielo come suo sfondo. Bene: dicendo “c’è un albero”, tu vedi un qualcosa e invece ti si potrebbe far notare che stai solo delimitando una parte di spazio visivo in cui non c’è il cielo (e che è il cielo a rendere visibile l’albero!). Che poi tu quella parte la chiami albero e la distingui, non fa granché differenza in termini assoluti. Sembra quasi paradossale, ma nessuna figura esisterebbe senza il suo sfondo. Eppure noi ci concentriamo solo sulle figure (o sul testo) non percependo e obliando lo sfondo (o il contesto).
Trasposto (e ridotto) tale discorso alla comunicazione umana, direi che a tale negazione bisognerebbe cercare di fare caso in ogni nostra affermazione. Perché quando diciamo una cosa, contemporaneamente ne stiamo dicendo un’altra ancora più importante, che però si nasconde tra le righe. A proposito: è per questo forse che, tra le rughe, sei anche poeta?
Va be’, torniamo al discorso. Se è vero quanto detto sopra, si può dire che, in un certo senso, siamo stati dei traditori della realtà, perché le abbiamo dato dei nomi e delle classificazioni e alla fine abbiamo creduto più alla verità di questi nomi e di queste definizioni che all’orizzonte originario indistinto in cui le cose esistono e si stagliano. Abbiamo tradito e dimenticato lo sfondo che ci dà consistenza.
Discorso difficile, che mette in gioco i nostri pregiudizi e le categorie taglienti con cui giudichiamo il mondo che ci circonda. Ma era per dare l’idea di come possiamo diventare prigionieri del nostro linguaggio e della nostra volontà di classificare e spiegare (dominare?) la realtà.
So che la tua domanda poteva andare a parare verso (e partire da) tutt’altro, ma mi piaceva seguire il filo di ciò che mi avevi suggerito. Spero che sia piaciuto anche a te.
Ma dimmi: ora, secondo te, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo continuare a ricercare i limiti (per poi superarli e trovarne sempre nuovi e più ampi) o dobbiamo smettere di classificare la realtà (se si può)?
E che dico a mia figlia, che tra l’altro mi chiedeva un’altra cosa? Febbraio ha 28 giorni o no? Ma più precisamente: febbraio esisterebbe senza il tempo? O, meglio ancora: il tempo esisterebbe senza l’orizzonte di un’eternità?
E già che ci sono mi affaccio in un altro panorama, da cui però ritraggo subito lo sguardo per quanto mi sembra profondo. Ma, a occhi chiusi, in questo panorama, resta l’eco della voce del filosofo Plotino: “Non esiste un punto dove si possano fissare i propri limiti in modo da poter affermare: fino a qui sono io”. Da brivido! C’è il sole, ma è un febbraio da brivido. Come è giusto che sia.
(Gustav Klimt, L’albero della vita, Palazzo Stoclet, Bruxelles, 1905-1909)
prova
I limiti esistono altroché, ma non sono quelli che solitamente fissiamo con delle ‘regole’, magari da anni su anni, per cercare di dare un ordine (pseudo) all’esistenza.
I limiti sono in ciascuno di noi, non nel creato, e sono indipendenti dalla nostra volontà. Non quelli contingenti dunque.
Quelli che noi ‘gestiamo’ non sono che limiti voluti, quindi non esistono.
– Sui reali, io per es., mi sono confrontata in passato e ho fatto delle scelte dovute. Sono grata ai miei limiti perché mi hanno dato luce.
Ben vengano i limiti se guidano un’esistenza.
Abbracci e baci
Rina
[non ho approfondito il discorso del vuoto, perché ho letto di corsa …la prochaine fois :)]
Grazie, Rina. Forse solo attraverso i limiti possiamo dire di avere un’esistenza :)
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