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di Nicoletta Corneli

Tratto dal celebre romanzo di Lewis Carroll “Alice nel Paese delle Meraviglie” e “Attraverso lo specchio” “Alice e il Paese che si Meraviglia”, è uno spettacolo che Giulia Grandinetti, classe 1989, ha scritto e diretto con delicatezza e coraggio qualità che raramente si trovano ben radicate in giovani menti ancora in formazione. Il teatro Velluti di Corridonia ha assistito attonito ad una perfomance della Compagnia teatrale Piccola Pietra di Potenza Picena, degna di un gruppo di attori consumati, sebbene guardando gli interpreti si scoprono volti semiadolescenziali. L’opera prima di questa artista, curata nella grafica da Gianluca Grandinetti, e nei disegni da Paolo di Orazio, ha in effetti dell’incredibile anche per la vasta gamma di emozioni che ha saputo strappare in platea sin dai primi momenti dello spettacolo.
Va evidenziato che la rappresentazione del 21 aprile, era associata all’AFAM, Associazione Familiari Alzheimer di Macerata, particolare che ha fatto di questo Dramma Tragicomico in un solo atto, un evento non solo culturale ma anche sociale.
Dopo la rappresentazione infatti, il pubblico non è fuggito via, sulla scia degli applausi, ma ha partecipato al dibattito che è seguito sulla malattia, in particolare sull’Alzheimer, e sul ruolo della società e del malato. Creando un inquietante parallelismo con la performance appena messa in scena, è emerso che il malato è “taggato” dalla società come un soggetto scomodo la cui dignità umana va annullata, e attraverso la sedazione farmacologica va controllato e reso inoffensivo.
Un dibattito che ha scosso un pubblico già duramente provato dal mondo “ dalle pareti imbottite” di Alice, che nella penna di Giulia si trasforma in adolescente creativa, che si trova, proprio a causa della sua curiosità e vivacità intellettuale, rinchiusa in una clinica, dove i personaggi del racconto di Carroll vengono declinati in soggetti malati di mente. All’ingresso del teatro veniamo accolti da un soggetto con un camice bianco da medico, ed una musichetta infantile che rasserena ed inquieta al medesimo tempo, frutto del lavoro di un giovane compositore, Giovanni Piccardi.
Il tempo sembra fermarsi quando Alice, ancora ignara prende posizione sul palco, trasformato per l’occasione in un istituto psichiatrico, ed è proprio in quel momento che inizia la frantumazione dell’Io del personaggio, poiché guardandosi le mani esclama “mi sembra di diventare invisibile”. Da qui a poco a poco tutti i personaggi del racconto di Carroll fanno il loro ingresso, ma nella versione di Giulia, sono trasformati con maestria e talento innegabile in poveri soggetti psicotici.
Alice, inizia ad interagire con i personaggi dapprima divertita dalle loro stramberie, poi con il passare del tempo, da soggetto pensante, Alice si trasforma in ostaggio, sino ad arrivare al colpo di scena finale. La clinica è gestita da Regina, la regina di cuori, che con il suo rossetto rosso fuoco e il tacco a spillo, seduce dapprima la protagonista, dominandola con atteggiamenti decisi ma cordiali, e poi via via che il racconto prosegue i suoi ingressi in scena dichiarano il vero obbiettivo della direttrice/dittatrice, rendere Alice disciplinata e quindi innocua, poiché con le sue tante domande e il suo “DIRITTO AL PENSIERO” è un soggetto scomodo e” poco educato”.
Tutti i personaggi si muovono liberamente sul palco ma impressiona il controllo dello spazio che ognuno di loro assume pur nella voluta sconnessione della mimica del corpo. La regista ha voluto effettivamente dare consapevolezza ai suoi attori distribuendo in fase preparatoria una mappa della scena evidenziando quali fossero i micro-territori che i personaggi avrebbero potuto marcare come fossero animali rinchiusi. Non solo, ma tra le tematiche toccate dallo spettacolo una in particolare colpisce perché risulta poi chiave nello sviluppo della storia, la comunicazione tra adulti e adolescenti e tra coetanei stessi. Attraverso il personaggio di Re, Giulia ci regala un esempio di teatro nel teatro.
La regista con questa opera ha voluto sottolineare come sia incredibilmente realistico ciò che la metafora dello spettacolo ci suggerisce, dato che ogni giorno il nostro sistema tenta e riesce a decapitare la creatività dei giovani tagliando risorse o anestetizzando le menti.
Uno spettacolo che potrebbe davvero diventare un’ icona del giovane teatro talentuoso, per la cura in ogni particolare, dalla preparazione degli attori, compagnia amatoriale “chiamata così perchè ama il teatro”, alla scenografia pensata e realizzata dalla regista come una scatola dentro la quale si muovono i personaggi.
Per non parlare dell’uso delle luci, volute cinematograficamente dall’alto e a tagli, e della scelta del bianco e nero, della geometria spigolosa e del clima asettico della scena chiaro collegamento con il suprematismo artistico. Nella scenografia troviamo anche la citazione del quadro di Malevic, appeso sullo sfondo. L’opera vuota attira ad un certo punto tutti gli attori, che si mettono di spalle e guardano ognuno ciò che vuole dentro quel vuoto pieno di contenuto, e nello stesso tempo ci si rende conto che gli attori diventano pubblico.
Troppi spunti per un solo articolo, Giulia Grandinetti è una professionista di soli 24 anni, che si confronta trionfalmente con una serie di tematiche molto particolari e difficili sia da trattare sia da condividere con il pubblico. Usa il suo spettacolo come una grande metafora e avanza delle critiche agghiaccianti, inventa i personaggi degli infermieri, ausiliari della Regina, che atterriscono solo per il fatto che sembrano davvero fantocci, privati anche dell’uso dello sguardo periferico. Trasforma lo Stregatto in Gatta, che rappresenta il prototipo dell’artista, la lepre marzolina in Marzolina, la donna che grida i colori, e fa sorridere mostrandoci Ghiro narcolettico, che cade con tonfi reali sul pavimento.
Una paziente Rosa, riferimento chiaro ai fiori parlanti del racconto di Carroll, si muove melliflua in preda al suo narcisismo, e poi le gemelline Panca Franca e Franca Panca che rappresentano le ragazzine simil veline, che posano “come statue di cera”, o Cappello che incarna la tossicodipendenza, lodevole nelle movenze mutuate dalla mosca, o Nico, il brucaliffo nichilista, che mima la gallina, escamotage usato da Giulia per dare ad ogni personaggio la possibilità di avere una mimica del corpo al di fuori della normalità.
Alla fine dello spettacolo, il cerchio sembra chiudersi sull’amaro e inevitabile destino delle menti creative, ma Giulia Grandinetti ci suggerisce che forse non è mai troppo tardi per ribellarsi ad un sistema da ancien regime, ad una società che promuove l’omologazione, in un mondo che, se ancora riesce a Meravigliarsi, perduto del tutto non è.