Tag

, , , , , ,

l'arte della commedia

di Arianna Guzzini

Lo scorso 24 marzo, Michele Sinisi del Teatro Minimo di Andria ha portato in scena al teatro di Montelupone Nicola Degli Angeli, L’Arte della Commedia di Eduardo De Filippo, un’opera che ha visto la sua prima nel ’65, ma che a suo tempo non ebbe notevole successo, a differenza delle altre proposte del maestro. La critica recente vuole scorgere lo scarso entusiasmo da parte del pubblico nell’eccessiva serietà del testo, che ne avrebbe compromesso la fortuna passata ed odierna. Eppure, andato a ritroso nei ricordi, non riesco ad intravedere alcun’opera di De Filippo che non possa ritenersi estremamente seria nei suoi contenuti, sempre rafforzati dal paradosso comico nell’intensità del dramma. L’Arte della Commedia presenta un impianto solidamente tradizionale, riproposto con esattezza sia scenica che scenografica dalla compagnia del Minimo, entro cui si muovono i due personaggi principali: Oreste Campese, il capocomico di una compagnia in difficoltà a causa dello scarso pubblico, ed il nuovo prefetto della città De Caro. Campese vorrebbe invitare il prefetto ad assistere ad uno dei suoi spettacoli con la speranza che la presenza di una tale autorità possa incentivare la partecipazione di un pubblico più ampio e, recatosi nella prefettura, inizia con De Caro una lunga discussione sulla crisi del teatro, sulla funzione di questo e dell’attore all’interno della società in cui opera, sul rapporto fra finzione e realtà. I due manifestano però pareri completamente discordanti fra loro, tanto che De Caro arriva ad indispettirsi della mancata accondiscendenza del capocomico con le sue opinioni e finisce col cacciarlo bruscamente rifiutando l’invito. Campese allora, appropriatosi della lista del prefetto con su scritto i nomi delle persone che avrebbe dovuto ricevere nel pomeriggio, sfida De Caro a riconoscere le persone reali dagli attori che lui stesso gli avrebbe mandato. Prende così avvio una sfilata di personaggi che si susseguono nell’ufficio di De Caro, le cui reali identità resteranno nel dubbio del bilico tra realtà e finzione fino alla fine. È questa un’opera spiccatamente metateatrale. Il lungo dialogo fra i due protagonisti prende le movenze di un dibattito etico, poetico, non che anche politico sul tema del teatro e del suo ruolo, dove Campese incarna palesemente il pensiero ed anche molte delle esperienze di Eduardo. La polemica di De Filippo si scaglia in primis contro la concezione che lo Stato ha, o che comunque vorrebbe far passare, di un teatro che deve la sua crisi da un lato alla decadenza generale della cultura e dall’altro alla mancanza di autori innovativi, i quali dovrebbero abbandonare i vecchi repertori per dedicarsi a questioni in linea con le idee dei governi che si susseguono in quegl’anni, ma soprattutto ad opere che si limitino al semplice intrattenimento. Attraverso la pacatezza dei modi di Campese, precisa quanto più di sbagliato ci sia in tutto ciò. La crisi del tetro non ha nulla a che fare con una fantomatica crisi della cultura, ma essa è dovuta alla mancanza di reali incentivi dello Stato, basti pensare al fatto che nei piani di aiuti economici del ’46 venne esclusa la ricostruzione dei teatri, tanto che De Filippo dovette mettere a diposizione le sue risorse personali per i lavori al San Ferdinando, dove poi si stanziò con la sua compagnia; o alla Direzione Generale del Teatro degli anni ’50, un organismo burocratizzato, gestito in maniera clientelare e parassitaria, che a nulla giovava all’indipendenza del lavoro e del pensiero che si voleva trasmettere, fruito dalle compagnie. Inoltre il ribadire la necessità d’un’immagine del teatro come piacevole passatempo poco impegnativo, faceva sì che si perdesse la concezione di quella che doveva essere la sua reale funzione, ossia quella di rappresentare in maniera diretta i tarli della società, di andare a spiare attraverso “il buco della serratura” non tanto i fatti, ma le circostanze che hanno portato questi tarli all’interno delle vite private, con tutte le drastiche conseguenze che ne seguono. I personaggi che vengono trascinati nei vortici di queste circostanze e riportati sul palco non hanno alcun bisogno di ricercare un autore, esso è già presente e pronto con i suoi attori ed artisti a rispondere al suo compito di trasmissione di valori, di svelamento delle problematiche sociali, di risveglio delle coscienze. Dunque il bisogno urgente coinvolge “non personaggi in cerca d’autore, ma personaggi in cerca d’autorità”, un’autorità che sappia riconoscerne le funzioni, sostenerle ed anche trasmetterle. Nonostante la profondità delle tematiche proposte, delle riflessioni che il testo comporta, c’è comunque qualcosa che non riesce mai a convincere, questa volta, lo spettatore. Non credo che il problema sia tanto nella serietà de L’Arte della Commedia, non è quello un ostacolo per chi osserva lo spettacolo, ma è forse piuttosto l’eccessivo carattere metateatrale, il quale non lascia alcuno spiraglio di catarsi, non dà allo spettatore passivo quell’orgoglio soddisfatto che si ha quando si esce dal teatro, di aver colto, almeno in parte, qualcosa da sé. Tutto è fin troppo palesemente spiegato, chiarificato, non da semplici brevi sentenze, ma da un intero dialogo che occupa quasi completamente il primo atto. Eppure si potrebbe anche ribattere: e se dal buco della serratura noi spiamo il capocomico, come è possibile non giungere alla creazione di un’opera metateatrale?