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Man_Ray_portemanteau_1920

di Arianna Guzzini
Lo scorso fine settimana fra coloro che passeggiavano sotto le floreali luminarie natalizie del centro storico di Macerata, molti saranno incappati in un insolito “spettacolo”. Davanti la vetrina di un noto negozio d’abbigliamento in via Largo Giovanni Amendola, per qualche ora ha stazionato una fitta folla. Fra i molti “Ma cà d’è?”, “Ma che sta’ a fa quesse?” mi ero avvicinata incuriosita. In un primo momento non avevo capito cosa stesse accadendo dietro quel vetro: una commessa ha allestito un manichino; cerca di pitturagli la faccia. E quindi?
Qualche secondo ed ecco giungere la rivelazione… la commessa sta per applicare il phard e in tutta risposta il manichino arriccia le labbra! Oh! Ma allora è vivo! Finito trucco e parrucco la modella-manichino esce dal suo spazio e se va dietro in camerino. Torna in vetrina con più di 500 euro addosso fra abiti ed accessori vari, sorride e resta in posa. Resta in posa. Ancora in posa. Forse x in posa ancora a lungo. Probabilmente il braccio ad angolo retto che regge la borsa le si addormenterà. Forse prima o poi lo muoverà. Già dopo qualche minuto, svelato l’arcano, la folla cominciava a diradarsi per cambiare forma e soggetti in altri passanti e, mentre anch’io stavo andando via, un ragazzo mi urla da dietro fra lo scherzoso e il viscido (testuali parole): “Ma che fai te ne vai? Che non ti è piaciuta?”.

Ora, sarà che Macerata è una piccola città e che una buona dose di provincialismo tocca un po’ a tutti, sarà che non siamo poi così pronti a cotanto senso di modernità al mo’ delle vetrine milanesi, ma se penso che l’ “evento” si è svolto alle porte della Settimana contro la violenza sulle donne, oltre al senso di tristezza, a me quella visione un po’ d’inquietudine l’ha messa. Ben inteso: niente grida allo scandalo, in fondo non è stato somministrato nulla di diverso da ciò che la TV (ma non solo) ci propone ogni giorno. L’esibizione non aveva poi nulla di volgare, mostrava solo un effettivo cattivo gusto. Il tutto è stato inoltre realizzato con un tocco di pura innocenza affossata nella più distratta incoscienza. Cosa certa è che un vestito non può che mostrare il suo effettivo valore se non quando è indossato; è ovvio, anche banale. L’abito presuppone sempre un corpo mancante, un corpo vivo che lo riempia e quello del manichino di plastica, statico sia nelle forme che nel movimento, non è paragonabile all’umano. Di qui la necessità di modelle o modelli. Tutto fila, almeno apparentemente. Qualcosa che non va in questo caso c’è e non è nemmeno molto complicato: anzitutto se si trasferisce l’immagine del manichino addosso a qualcuno, vien da sé l’oggettivazione del soggetto stesso. Inoltre è un problema di contesto, dal momento che, se si pone una persona all’interno di una vetrina, la quale fondamentalmente resta adibita ai fini di vendita, la si mette allo stesso livello della merce esibita e arriva persino a prendere il posto dell’oggetto da vendere. È complesso? Non mi pare. Inserirsi nello spazio pubblico significa sempre ed inevitabilmente operare su di esso e sul senso comune di coloro che lo vivono, propagando idee, immagini, opinioni e non ci si può nascondere dietro una presupposta innocenza, non si può non considerare ciò che si veicola. Esistono modi più originali di farsi pubblicità facendo di necessità virtù, cogliendo l’occasione, magari, per restituire alla città un qualcosa di più originale, senza soffermarsi sui soliti modelli discriminanti e denigratori. Far passare un evidente doppio senso, che è poi, ahimè, quello della ragazza in vetrina di un quartiere a luci rosse, per senso di “fascino ed eleganza”, lo trovo (e mi ripeto) triste ed inquietante, tanto quanto il commento di quel ragazzo intriso di così becera spiritosaggine. Eppure ancora una volta è quel tipo di comportamento che si è voluto incentivare e, che lo si sia fatto in maniera consapevole o meno, non muta lo stato dei fatti. Ancora una volta si è voluto far passare per normale e, peggio, per originale, l’uso di un corpo svilito nella sua dignità e per di più esposto, senza alcun filtro, ad atteggiamenti denigratori. Possiamo dare a questi individui, che si dilettano nei commenti da bar, degli imbecilli e sicuramente lo sono, ma non si può di certo pensare che non sia stata quell’immagine ad indurre tali comportamenti. La forza delle immagini, dei codici simbolici ad esse associati, influenzano inevitabilmente l’immaginario collettivo, sempre. Come scusante certamente è possibile continuare ad arroccarsi dietro presunte libertà di espressione sacrosante, quelle che permettono l’uso mercantile del corpo della donna, oppure dietro una libertà individuale che funge da perfetto alibi per cui ciascuno farebbe del proprio corpo ciò che vuole. Ma di chi sono queste libertà? Di chi ci guadagna probabilmente, che ostenta la libertà come un vessillo e poi la utilizza come specchietto per le allodole, di una legge di mercato che non fa altro che mascherare la propria vacuità d’idee. La scoperta delle possibilità del corpo è fondamentale, soprattutto per una donna, ma anche queste, come ogni libertà, hanno dei limiti. Esiste un problema che concerne la liberazione di questo corpo, il quale non può prescindere dalla rete delle relazioni e dei significati cui esso è inserito ed agisce. Prendere atto di ciò può fare la differenza tra l’affermazione effettiva della propria sovranità su di sé e l’associazione distorta di proprietà del corpo – autoimprenditorialità del personale capitale umano, propria della logica neoliberale, la quale ribalta ogni singola libertà in libertà di mercato.

Foto: Man Ray, Portemanteau