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di Camilla Domenella

Siamo in clima elettorale. Le facce rassicuranti dei candidati ammiccano dai cartelloni incollati in ogni angolo delle città. Domenica si vota per le Europee e su televisioni, giornali, social networks, rimbalzano, come pinball impazziti, parole come “democrazia”, “solidarietà”, “crisi”. Ognuno di questi termini è assurto a slogan, sventolato come una bandiera, o scongiurato come un morbo.
Questo, in breve, il macroscenario.
Ma, come si sa, la macrostoria si intreccia sempre alla microstoria. E Macerata, non esclusa dal fervore elettorale, aggiunge a questo l’importanza delle celebrazioni per la settimana della non-violenza.

In questo ambito si è quindi inserito il primo incontro del Caffè Filosofico, tenutosi lo scorso mercoledì presso la Galleria degli Antichi Forni, col professor Roberto Mancini. La conferenza portava il titolo “Non violenza, via alla democrazia”. Un tema chiaro a dirsi, ma spinoso e complesso nella sua piena attualità.
Roberto Mancini, professore di Filosofia Teoretica all’Università di Macerata, ha da sempre condotto la sua ricerca filosofica su temi di grande attualità: da quello della globalizzazione al concetto contemporaneo di libertà, da quello dei diritti umani, alla teorizzazione di una prassi per la loro tutela.
Un personaggio competente quindi, il quale, lungi dal dare risposte, ha suscitato domande, lungi dal proporre soluzioni, ha sollevato questioni.

Da filosofo quale è, Mancini ha prima condotto un’analisi sulle cause di una non-democrazia e, in particolare, sulla crisi totale che stiamo vivendo oggi.
Come il matematico, per dimostrare il positivo, procede per assurdo dimostrandone la negazione, così Mancini ha esposto i punti cardine di ciò che non deve essere.
In primis, affinché vi sia reale democrazia, l’uomo non deve cedere all’isolamento. Isolarsi significa rinunciare. Rinunciare cioè al dialogo, alla comunicazione, al rapporto con l’altro. Isolarsi significa persino rinunciare a se stessi, perché senza il confronto, non possiamo costruirci una identità.
L’isolamento non è un mero chiudere la porta a chiave: è qualcosa di più profondo, che prima invade il mondo a noi circostante, e poi compromette il nostro mondo interiore. Isolamento è quando ci abbandoniamo alla rassegnazione, è quando non troviamo più stimoli ma solo giustificazioni, è quando, affondati tra i cuscini del divano, guardiamo fissi l’orizzonte della stanza e ci crogioliamo nel nostro ebetismo.
Così è l’isolamento: un progressivo scomparire del sé, un pericoloso svuotarsi dell’io. Perché “non c’è interiorità, laddove c’è isolamento.”

L’altra causa dell’attuale crisi è, secondo Mancini, il liberismo. Alla base di questa teoria economica, vi è il sistema capitalista. Tutto ruota attorno alla proprietà privata, anzi: alla proprietà e al privato. Come è evidente, parlare di proprietà implica un principio egoistico: ciò che appartiene a me, non può contemporaneamente appartenere anche a te. È un principio di esclusività, che inevitabilmente degenera in esclusione e, guarda caso, in isolamento. Dall’altra parte c’è il concetto di privato, che è divenuto ormai sinonimo di individuo. Il sistema, invece di garantire l’opportunità di svilupparci come persone, ci lascia esistere come individui. Individui singoli, inautentici, inespressi, passivi, come numeri. Inoltre, ciò che è privato è spesso nascosto, latente, cioè incomunicabile. Ed è dalla non comunicazione che la forza che abbatte la democrazia trae linfa vitale.
Friedrich von Hayek, economista, esponente storico del liberalismo, coniò una definizione interessante: “democrazia vuol dire libertà economica”. A von Hayek, chiederei perché. Perché la democrazia dovrebbe essere così strettamente connessa all’economia, tanto da esserne giustificata e fondata? L’economia dovrebbe essere un sostegno, diciamo pure un pilastro, della democrazia. Non deve però esserne il fondamento e insieme il fine. Economia e democrazia non sono identiche né sovrapponibili.
È vero, c’è anche la libertà nella definizione di von Hayek, ma è una libertà illusoria. È la libertà di fare esattamente quello che l’altro fa. È quella che Mancini chiama “logica dello specchio”: l’altro mi nega, io lo nego. Ma io, quell’io abbagliato dalla presunta libertà di poter fare come l’altro, posso invece fare altro. Io posso uscire dalla logica stringente: l’altro mi nega, io non lo nego. Ed è con la negazione della negazione, con quel “non”, che il velo di Maya si squarcia e scopre lo spazio immenso dell’alternativa. Quel non negare è la chiave della non-violenza. “La non violenza è un’energia sistemica – spiega Mancini – che introduce un principio di solidarietà laddove c’è conflitto”. La non-violenza è quindi un modo di scegliere d’essere e un modo d’agire. Un modo possibile.
Se il liberismo ci vuole individui, la non violenza ci chiama, ci impone, di realizzarci come persone. Essere persone è compiere una scelta: è apertura, è dialogo, è comunicazione, è relazione e non competizione, conflitto, negazione. Essere persone è riaffermarsi sempre come se stessi nella relazione con l’altro. E questo affermare è quello che Camus chiama il “dovere della libertà”. La libertà impegna, richiede dedizione, azione, cura.
“Cura” è l’altra parola chiave che Mancini utilizza. Il sistema capitalista-liberista, esprime una logica di potere che è competitiva, aggressiva, potremmo dire “maschile”. A questa, dobbiamo oggi opporre una logica “femminile”, una logica della cura. Cura di sé, ma soprattutto della relazione con l’altro: cura è “tenere a”, “occuparsi di” che ci chiama in causa in prima persona. Il potere non è infatti prevaricazione o superamento, bensì, e lo espresse bene Hannah Arendt, “energia della cooperazione”. Solo cooperando si genera solidarietà; solo dalla solidarietà si generano comunità di persone, che cambiano le regole, che operano il cambiamento che vorrebbero vedere nel mondo.
Nel cortocircuito del liberismo, “l’uomo è remissivo: – prosegue Mancini – cerca soluzioni private a problemi collettivi”. Schiacciato dal suo essere ingranaggio del sistema, illuso e insieme continuamente deluso, costretto ad essere un mezzo – e non un fine – del sistema, l’uomo si isola, si arrabatta per sopravvivere. Il sistema ha sostituito la democrazia con il mercato. L’individuo, invece di essere persona e cittadino, è soldo.
Ma, seppur nella propria remissività, l’uomo è inedito: può esprimere qualcosa di mai esistito attraverso gli interstizi amplissimi della vita quotidiana.

Non violenza è quindi solidarietà, cura, ma anche prevenzione. Quello che noi oggi facciamo, ci rende responsabili per le prossime generazioni. E queste generazioni non sono così lontane! Sono i nostri figli, eh! Dobbiamo prenderci cura, adesso! Come sottolinea Mancini, “non puoi aspettare il mostro, Hitler, o Bin Laden prima di agire”. La storia insegna: i personaggi più foschi nella cronaca dell’umanità non sono comparsi per caso, all’improvviso, presentatisi un mattino con la loro crudeltà. Tutti sono frutto e conseguenza di logiche complesse maturate nel tempo. Come una palla di neve, rotolando per il clivo di una montagna, diventa una valanga. La libertà, che, come abbiamo detto, ci impegna, è, in questo caso, “il tempo di intervenire prima che accada l’inumano”.

Cosa significa però inumano? Come possiamo, praticamente, realizzare la non violenza e perciò la democrazia?
Mancini lo spiega chiaramente. La prima cosa da fare è indagare e far emergere la sofferenza sociale. Quando, solo pochi mesi fa, a Civitanova, in un giorno solo, muoiono tre persone – perché senza lavoro, perché la disoccupazione le ha private della dignità, perché le ha condotte alla vergogna, le ha ridotte a togliersi la vita, la quale, ormai, non poteva più dirsi tale – non possiamo non renderci conto che c’è qualcosa che non va. E non che non andasse in loro, ma nel sistema.
L’altra tappa verso la democrazia è compiere un’analisi reale. Chiamare le cose con le parole giuste è individuare l’interstizio dal quale, da un momento all’altro, può entrare il cambiamento.
Infine, è necessario individuare un’alternativa. Senza il riconoscimento di un’alternativa, vi sarebbe mera rassegnazione. Un’alternativa c’è sempre, basta scorgerla. E sì che vedere l’alternativa è già fare: è spiare dall’interstizio.
A queste tappe verso la democrazia, vanno aggiunti i capisaldi della non-violenza.
Non-violenza, abbiamo detto, non significa oggi opporsi fisicamente a chi di fronte a noi imbraccia un’arma. È invece solidarietà, cura, prevenzione, cooperazione. Per questo bisogna rifiutare la competizione, cui il sistema liberista ci ha costretti; bisogna poi impegnarsi in campo politico, inteso come “politeia”, cioè comunità collaborativa; e infine, bisogna tenersi sempre pronti e aperti alla relazione.

Nel 1949, il filosofo tedesco Theodor Adorno asserì “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Anni dopo, nel ’66, ritratterà questa affermazione. C’è sempre uno spazio dal quale la luce può entrare, e la libertà finalmente uscire.

(In foto: Gandhi, paladino della non violenza)