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di Marco Di Pasquale

Per la poesia marchigiana, e per il Licenze Poetiche Festival in particolare, quest’anno si offre una preziosa opportunità di incontrare una delle voci più importanti del panorama poetico mondiale, lo statunitense John Taggart, recentemente tradotto (per la prima volta in Italia) da Cristina Babino per Vydia editore. Dopo un primo appuntamento al Salone del Libro di Torino, Taggart giunge a Macerata per prendere parte all’evento clou della rassegna di poesia aggiornata che si svolge in città da lunedì 12 a sabato 17 maggio, come di consueto da tredici anni, grazie alla cura e l’impegno di Alessandro Seri e dell’associazione Licenze Poetiche.
Nel libro che verrà presentato stasera, giovedì 15, alle 21,15 alla Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi Borgetti, il progetto che rilega tutta l’intelaiatura è quello delle “pastorali”, quindici testi che, parlando di un mondo ben preciso, quello della campagna della Cumberland Valley, in Pennsylvania, terra di Amish e di tradizioni antiche e radicatissime, dove Taggart vive da diversi anni; e rappresentando un universo di oggetti e luoghi cuciti insieme dallo spirito discretus del poeta, cerca di rimetterne in ordine decifrabile le componenti assicurandole ad un canone intellegibile che segni un sentiero di senso. Si stagliano potentemente sulla scena, pur nella totale colloquialità del dettato, la birra Arrow, le auto, «Auburn e Cord e Duesenberg», che sono esposte nel privato museo della memoria del poeta, la Scuola industriale indiana di Carlisle, la casa di pietra di Jacob Ramp, a formare una costellazione di bagliori, di punti significativi a delimitare ed insieme sfondare il muro del denotativo, creando occasionali quanto illuminanti parallelismi tra le categorie ed i piani più disparati.
Questa qualità della poesia di Taggart di magnetizzare le cose caricandole di un significato non solo descrittivo ed attuale, ma anche riflessivo e storico, proviene anche dalla profonda influenza avuta su di lui dal pensiero e dall’opera di poeti Oggettivisti come Louis Zukofski e George Oppen, e questa riflessione ha prodotto una stratificazione dei livelli compositivi ed interpretativi che dona spessore dell’opera e ne costituisce una delle principali peculiarità.
Tra l’una e l’altra “pastorale”, che svolgono la funzione di chiavi d’intonazione della lettura, si avvicendano inoltre altri testi che, nell’andamento sincopato tipico di ciò che è cresciuto nell’oscillante ossessività della musica afroamericana, si approssimano con fermezza all’obiettivo finale della scoperta di un senso, attuale o memoriale, che possa intessere l’ordito della nostra storia. Taggart attribuisce un’importanza fondamentale all’uso di una elegante tecnica ritmica che, attraverso gli strumenti assiduamente utilizzati della ripetizione e della tramatura sonora, riscontrabile sia nella versione di Babino sia soprattutto nel testo originale a fronte, ci ricorda quanto la musicalità sia una delle prospettive ermeneutiche della realtà, vista come spartito sonoro su cui ogni esistenza va a disporsi componendo insieme alle altre un motivo che altro non è se non la nostra storia comune.
La tecnica di acculumazione ritmica diviene quindi un vero e proprio stile linguistico, un codice comunicativo che non vede il linguaggio letterario, la parola scritta come qualcosa di strettamente necessario, essendo sufficiente il libero flusso del canto, che composto in progressive scatole cinesi, ci svela al termine del viaggio l’emozione che l’esperienza può darci. L’incastro dei versi, che Taggart monta con un continuo lavorio centripeto di manomissione e riassemblaggio, si nutre ogni volta del progressivo slittamento del baricentro del testo, elevando il lettore al di sopra del piano descritto e dandogli una visione sempre più ampia e particolareggiata, anche grazie all’aggiunta cadenzata, in una sorta di jam session narrativa, di nuove “presenze” che riempiono il quadro e rendono manifesti i legami tra ciò che è dentro e chi è fuori dalla pagina.
La rappresentazione di questo rapporto tensivo tra le cose e quindi tra gli eventi che esse innescano, procura sì un effetto straniante di astrazione, quasi di mitizzazione dell’oggetto delle poesie, ma al contempo ci allontana dal semplice dato per condurci in un non-più-luogo che si caratterizza come territorio libero: si pensi ad esempio al ponte Ramps della “PASTORALE 14”, cunicolo che dall’oscurità ci riconduce alla luce depurati e pronti a dare sfogo alla propria volontà di ribellarsi all’unidimensionalità della scrittura (d’altronde, in un altro testo significativamente intitolato “5/SUL VERSO”, il poeta dice espressamente: «per trovare la mia strada ho dovuto creare il mio buio»). Da questa condizione di libertà deriva la possibilità di attivare ogni tipo di ibridazione interdisciplinare, aprendo le porte delle poesie alla filosofia o al cinema, alla botanica oppure alle suggestioni derivate da altre lingue (il greco antico nel testo “HENRY DAVID THOREAU/SONNY ROLLINS” o il tedesco del poeta espressionista Trakl), o ancor più in maniera particolare alle arti visive (numerosi i componimenti suggeriti a Taggart dall’opera di Diego Vélazquez, Edward Hopper, Ronald Brooks Kitaj ed altri).
Da questo lavoro assiduo di sfaldamento dei livelli e di fusione delle diverse materie Taggart ottiene un materiale versificatorio incandescente, denso e compatto seppur magmaticamente complesso, che scivola via dalla pagina imponendo una seria riflessione a chi legge sulla multiformità contraddittoria ed affascinante del mondo in cui viviamo e che veniamo chiamati con la nostra intelligenza a riedificare: «cosa si può fare = le parti appoggiate / ancorarle / alle ruvide pietre di fondazione della vecchia scuola / […] cosa si può fare / che la musica entri come da un portale accogliente entri in questa / aria/tra questi pini».

(foto tratta dal sito www.cumberlandvalleypa.com)