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Cecilia Mangini è nata nel 1927, donna, documentarista, antifascista e viene dalla Puglia: praticamente un fuoco del tipo di quelli che, una volta accesi, continuano a girare furiosamente scoppiettando e schizzando scintille, barlumi. Da “fascista sfegatata” nel 1942 (cito dal suo definitivamente ultimo lavoro “In viaggio con Cecilia”, scritto con Mariangela Barbanente), esce nel 1958 col suo primo lavoro: “Ignoti alla città”. Chi ha vissuto il Sud di quegli anni sa bene quanta arretratezza vi regnasse ancora, all’arrivo prepotente dell’industrializzazione: le donne praticavano ancora riti funebri in carica di sacerdotesse del dolore, i bambini giravano senza scarpe e la fabbrica si riusciva già a scorgere solo scostando un poco i rami degli olivi. Questo primo lavoro sintetizza la volontà di denunciare tale realtà, inserendola nel contesto che più ha reso evidente lo spacco terrificante tra città e zone depresse: Roma. Roma con le sue zone di luci e vetrine, di bellezze storiche, artistiche; Roma con la sua periferia figlia di un’architettura dittatrice e infelice, dimenticata dal centro città, da quelli che contano.
Cecilia Mangini ha còlto in pieno la proposta che Calvino fece alla letteratura e l’ha tradotta nel linguaggio cinematografico: basta con la narrativa, in tempi di fermento il genere più adeguato a dire qualcosa è la saggistica. La Mangini ha scelto la documentaristica, che, in quanto a capacità osservativa e critica, sortisce lo stesso effetto. Fuoco dell’indagine la sua Puglia, soggetto principale Montedison, lo stabilimento petrolchimico un tempo fra i maggiori in Italia. Obiettivo: dimostrare, in più di cinquant’anni di lavoro (con una lunga pausa di venti anni), quale tetra previsione si celasse in qualche animo, il suo almeno, circa il progresso, questo mostro sconosciuto. Morte, coercizione da parte del sistema e soprattutto, infine, abbandono da parte della politica nazionale. “La magistratura non può sostituire la politica” sostiene la Barbanente nel lavoro presentato in occasione di Unifestival a Macerata. Perchè è sì vero che è stata essa, la magistratura, a denunciare il disastro ambientale compiuto ieri dalla Montedison di Brindisi ed oggi dall’ILVA di Taranto, ma la grande assente nella discussione si è rivelata essere proprio la politica. E di solito chi manca costituisce quel vuoto in cui la colpa si inserisce. E nello smascheramento di questo “buco” si inserisce l’impegno civile della regista.
Sia chiaro che il rimpianto del passato agreste e della società contadina non sono pensieri che animano questa protesta. Vittorini sosteneva che il mondo esiste, che il discorso sul mondo conta perchè al di là del discorso c’è il mondo. Mangini afferma: “E’ giusto che il mondo cambi” e contemporaneamente gira un documentario. In altre parole, scuote le coscienze; ci riesce davvero.
L’ILVA ha concepito per la prima volta la coscienza di appartenenza nelle persone, prime disperse in campagna, in mare o nelle botteghe. Solo che poi il sogno si è frantumato e i morti sul lavoro sono risultati insignificanti a cambiare le cose.
Cecilia Mangini assomiglia sempre più alla figura di un profeta, in quanto il suo lavoro di una vita ha dimostrato, registrato qualcosa che è la diretta conseguenza prevista da tanti intellettuali degli anni ’50. Il lavoro con cui salutò la scena nel 1975, “La briglia sul collo” fa pensare e pare rappresenti il sintomo di quella censura, di quell’ “Italia fascista in camicia bianca”, di quella dittatura mediatica. Potrebbe rappresentare la nuova Serajevo tristemente paventata da Calvino pochi anni prima. Dunque all’erta, ci consiglia la maestra, la terza guerra potrebbe essere dietro l’angolo. Ma non ci si scordi che, in questa vita di battaglia, la prima dote in concorso è l’ottimismo.