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Dali S1

di Andrea Ferroni

In questa rubrica mensile, passando attraverso le domande che ci facciamo e i problemi che viviamo, mi metto in dialogo con qualcuno per ricercare insieme un senso nell’esistenza quotidiana. Come a volte fa il consulente filosofico, vorrei tentare di prendere spunto dagli interrogativi che nascono dalla lettura di testi o da incontri e conversazioni fortuite affinché diventino questioni aperte che interrogano ognuno di noi. Nel proporre una risposta non intendo certo dare sentenze definitive: offro il mio contributo ad una riflessione comune.

La domanda di aprile:
Il pretesto della domanda, in questo mese, è diverso. Stavolta mi metto in rispettoso ascolto di chi ne sa infinitamente più di me: c’è da imparare solo ascoltando. In occasione dei 50 anni della facoltà di Lettere e Filosofia a Macerata, l’Università, il 2 aprile scorso, nell’Aula Magna della sede storica, ha organizzato un interessante seminario. C’erano Dario Antiseri, filosofo che molti conosceranno per un famosissimo manuale di Storia della filosofia scritto insieme a Giovanni Reale, e Salvatore Natoli, filosofo che insegna alla Bicocca di Milano. Il seminario, all’interno di un ciclo intitolato “LaFilosofia&laCittà”, si propone di rispondere ad una domanda divenuta ormai “classica” nel quotidiano mondo contemporaneo: “FARE FILOSOFIA: PERCHÉ?” o, in altri termini, “A che serve la filosofia”. Si capisce il motivo per cui l’Aula Magna era gremita di studenti iscritti alla facoltà di filosofia ben oltre la sua normale capienza.
Cercherò di riportare quanto ho capito dell’intervento di Dario Antiseri che di risposte ne dà, in effetti, ma le propone anche perché siano criticate.

La (non) risposta:
Il professor Antiseri è abbastanza chiaro: esiste la filosofia, ed ha senso, perché esistono problemi filosofici. Ma anche perché siamo intrisi di teorie filosofiche: ognuno di noi, che lo sappia o meno, possiede una filosofia (cioè un sistema di idee e giudizi): non essere consapevoli della propria filosofia comporta il rischio di non conoscere un’importante parte di se stessi e di rimanere ad un livello ingenuo ed inconsapevole di conoscenza del mondo.
Una prima risposta, dunque: la filosofia serve a conoscere se stessi e ad affrontare correttamente i problemi filosofici.
Un esempio di problema filosofico, tra i tanti possibili: esiste una democrazia senza relativismo? Oppure, più ampiamente: in base a cosa si fonda uno Stato?
La costruzione dei fondamenti di uno Stato viene dalle scuole di filosofia, non dalle botteghe degli artigiani o dalle produzioni industriali. E dallo Stato dipendono milioni di vite umane: un aspetto per nulla trascurabile delle conseguenze di alcune idee che provengono dalla filosofia.
Tornando quindi ai problemi filosofici in generale, il professore comincia le sue argomentazioni. Ci dice che, come tutti i problemi, essi vanno risolti, o perlomeno approcciati, con metodo scientifico; il che significa: dopo essere inciampati in qualche problema, formulare ipotesi e teorie e poi osservare il loro funzionamento nella soluzione del problema. Se la teoria non soddisfa o si imbatte in qualche contraddizione, occorre riformulare nuove ipotesi da sottoporre ancora al vaglio sperimentale dei fatti.
Antiseri ci tiene a sottolineare che dagli sbagli si impara molto e anzi che, a ben vedere, si impara solo dagli sbagli. Per far capire questo concetto, il professore tira fuori il suo cavallo di battaglia: Karl Popper, filosofo austriaco morto nel ‘94, che si è occupato a lungo di scienza ed epistemologia. Secondo Popper il vero scienziato non desidera la verifica delle sue teorie, perché, complice anche la psicologia umana che si accontenta sempre delle conferme alle proprie idee, sa che la verifica non dimostra nulla se non che non si è ancora trovato il punto di crisi della teoria stessa. Infatti, per quanto numerose possano essere, le osservazioni sperimentali a favore di una teoria non possono mai provarla definitivamente, mentre, di converso, basta anche solo una smentita sperimentale per confutarla.
Antiseri sottolinea, dunque, che non possiamo dimostrare vera nessuna teoria in assoluto. Possiamo solo falsificare. Abbiamo quest’unico controllo: osservare le conseguenze di una teoria e ricercarne le smentite per poi ritornare eventualmente a formulare ipotesi più esplicative, senza che peraltro il processo possa avere un termine definitivo e un approdo ad una verità oggettiva stabile.
La falsificabilità è il criterio di demarcazione tra scienza e non scienza: una teoria è scientifica se, e solo se, essa è falsificabile, cioè espressa in forma tale che parta da un asserto universale da cui si ricavino, in maniera rigidamente concatenata, conseguenze particolari, controllabili e criticabili empiricamente.
A mo’ di esplicazione, il professore ricorda alla platea un fatto accaduto in un convegno in un paese dell’Est all’epoca in cui la rigida divisione tra USA e URSS era ancora molto viva. Per spiegare la differenza tra teorie scientifiche e teorie non scientifiche, ad un’obiezione di un conferenziere che proponeva la scientificità del DiaMat (il Materialismo dialettico), vi fu la risposta di un filosofo epistemologo, che si espose ingenuamente ad un grosso rischio spiegando come, nel caso di una teoria scientifica, non appena ci si imbatta in un fatto che falsifichi quella teoria, la teoria muore; mentre, al contrario, nel caso del DiaMat, non appena si presenti un fatto contro di esso, non muore la teoria ma il fatto (e spesso anche la persona che si è fatta portavoce di quel fatto). L’usciere del convegno consigliò prudentemente a quel filosofo di non rimanere a lungo nei paraggi.
Antiseri propone quindi una prima morale epistemologica: non potendo dimostrare assolutamente vera nessuna teoria, voler evitare l’errore è un ideale meschino.
Se Karl Popper è stato utile per comprendere la fondamentale importanza della falsificazione (contrapposta alla verificazione) delle teorie scientifiche, un altro filosofo, Hans-Georg Gadamer, viene tirato in ballo per farci capire perché non possiamo fidarci della umana tendenza a credere vero ciò che ha delle conferme. La teoria ermeneutica (=dell’interpretazione) prevede che, di fronte ai fatti della realtà, noi non possiamo fare altro che interpretarli, cioè dare loro dei significati. Ma per interpretare un fatto facciamo inevitabilmente uso di pregiudizi (=tutto ciò che abbiamo in testa prima di affrontare e giudicare i fatti): in altre parole, per giudicare qualcosa, dobbiamo partire da ciò che già abbiamo acquisito nel corso della nostra vita e ciò che già abbiamo acquisito costituisce una categoria interpretativa soggettiva che inevitabilmente inficia la comprensione oggettiva dei fatti. Che la infici oggettivamente non vuol dire che dovremmo cercare di eliminare i pregiudizi soggettivamente: del resto come potremmo conoscere qualcosa se non in base ai dati già in nostro possesso?
Ma se i nostri pregiudizi (o meglio: precomprensioni) sono inevitabili a priori, altrettanto necessario è il dovere di metterli almeno in gioco a posteriori, cercando di svelarli e, se possibile, falsificarli, in modo tale da creare le condizioni per una nuova e “migliore” interpretazione, che consenta un passo in più verso l’oggettività della conoscenza, pur sapendo che il percorso verso l’oggettività è un compito infinito. Esattamente in questo ambito prende vita il circolo ermeneutico: un circolo potenzialmente infinito di progressiva consapevolezza (e messa in discussione) dei propri pregiudizi nell’atto di conoscere, cioè interpretare, la realtà.
Precisiamo: la conoscenza dei pregiudizi avviene proprio dopo il loro uso nel giudizio di volta in volta dato sui fatti della realtà e, più specificamente, nelle conseguenze che il mio giudizio comporta, sull’incontro-scontro delle mie categorie interpretative e il fatto interpretato. In altre parole, il fatto ci rivela il nostro pregiudizio solo dopo che il giudizio sul fatto è stato espresso. E il circolo torna da capo: con maggiore consapevolezza si può riformulare un’altra ipotesi (giudizio) su quel fatto. A questo punto, a colui che ha acquisito sensibilità ermeneutica, un altro pregiudizio verrà nuovamente rivelato e reso esplicito, e così via, ma sempre dentro un circolo virtuoso.
Un’altra morale: la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi è fatta sempre di congetture. E non siamo mai i detentori delle congetture giuste.
Facendo uso della teoria ermeneutica, Antiseri ci vuole mostrare come il metodo scientifico sia applicabile anche al di fuori della scienza in senso stretto. Il metodo scientifico, insomma, è unico: problemi -> teoria -> critiche. Diverse sono le metodiche di prova, ma uno solo è il metodo.
A questo punto la domanda che interessa uno studente di filosofia è: le teorie filosofiche sono scientifiche? Il che si traduce con la domanda: le teorie filosofiche sono falsificabili?
La risposta di Antiseri è no. Ma, come è ovvio aspettarsi da un filosofo, la questione non rimane così semplice poiché ci si può ulteriormente domandare: posto che non siano scientifiche, le teorie filosofiche sono comunque razionali? In questo caso -ed è la salvezza della platea- la risposta è affermativa. Le teorie filosofiche sono razionali perché sono criticabili su base razionale.
Come? Per rispondere occorre chiamare di nuovo in causa Popper e, in particolare, ciò che lui definiva “Mondo 3”. Va detto, infatti, che il filosofo austriaco distingueva il nostro mondo in tre sotto-mondi o sotto-universi: il Mondo 1, cioè gli oggetti fisici o gli stati fisici; il Mondo 2, cioè gli stati di coscienza o gli stati mentali o le disposizioni del comportamento ad agire, cioè il mondo delle esperienze soggettive e intime; il Mondo 3, cioè, i contenuti oggettivi del pensiero, specialmente le idee scientifiche, le teorie matematiche, ma anche le creazioni poetiche, letterarie e artistiche in generale. Il Mondo 3 è, insomma, il mondo tipicamente umano dei prodotti del pensiero o, in altre parole, i prodotti esterni che derivano dal Mondo 2. Per fare un esempio: un libro è un agglomerato di fogli di carta (è il Mondo 1); l’autore del libro, prima di pubblicarlo, aveva emozioni, speranze, sogni, visioni immaginifiche e fantasiose, paure, desideri di fama oppure volontà di fare del bene alla sua comunità, sentimenti magari contrastanti, ecc. (è il Mondo 2); il libro come prodotto esterno fruibile da tutti, giudicabile, valutabile, magari a sua volta emozionante o utile è il risultato dei processi mentali del suo autore e diventa però qualcosa di diverso dagli stati mentali che l’hanno prodotto (è il Mondo 3). I tre mondi possono influenzarsi l’uno con l’altro.
Eccoci al punto, dunque: quando una teoria filosofica non si isola da ogni mondo possibile e si può, invece, confrontare e magari scontrare con un pezzo di Mondo 3 ben consolidato e ampiamente accettato (una teoria della fisica, ad esempio) o si può confrontare con un pezzo di Mondo 3 cui difficilmente una società possa rinunciare, allora quella teoria filosofica diventa criticabile e dunque si può affermare che sia razionale.
Siamo al termine. Il professor Antiseri, dopo aver citato Withehead per cui “un contrasto tra idee non è un dramma, ma un’opportunità” e poi Einstein, per cui “nel campo di coloro che cercano la verità, non esiste autorità umana”, conclude con una sintesi del suo intervento.
Premesso che:
– la filosofia fa parte di ognuno di noi (nel senso che siamo intrisi di idee filosofiche, anche se spesso in modo implicito),
– la filosofia non serve ma regna (nelle nostre teste, tenendo presente, poi, che le idee filosofiche sono le più importanti tra le idee, avendo spesso vitali conseguenze nell’esistenza concreta dell’umanità);
si afferma che:
– la filosofia ha senso perché esistono problemi filosofici (che non sono solo questioni linguistiche mal poste),
– per risolvere i problemi (compresi quelli filosofici) il metodo è uno solo: quello scientifico (problemi-teoria-critiche).
L’obiezione secondo cui le teorie filosofiche non sono scientifiche poiché non falsificabili si deve accogliere, aggiungendo, però, che esse sono comunque razionali e criticabili fin tanto che consentono la confrontabilità con pezzi di Mondo 3.
All’obiezione si risponde, dunque, che il metodo scientifico è applicabile anche alle teorie filosofiche nella misura in cui esse siano formulate in modo tale da essere criticabili nel confronto con uno o più contenuti del Mondo 3.