di Alessandro Seri
Fermo in coda in una strada a senso unico che sembra un torrente di lamiere e smog in fondo al canyon dei palazzacci anni settanta, ascolto stordito The river di Springsteen e recupero un po’ di armonia dalle note. Ricordo che questa è la strada che feci per riaccompagnare a casa la ragazza con la quale andai per la prima volta a teatro. Lo spettacolo era una commedia orrenda ma da ragazzi non si percepiscono appieno le qualità delle compagnie amatoriali. Ricordo che era febbraio o giù di lì e stavo per compiere diciannove anni. La strada era la stessa.
Qualcuno in fila, dietro di me, frustrato dall’attesa e drogato dal grigio, si attacca al clacson e mi sveglia dal pensiero nostalgico, riemergo dal passato con Springsteen che ancora canta di lui e Mary giù al fiume, mi guardo intorno e comprendo, con un sorriso tenero che mi scopro dallo specchietto retrovisore, il motivo della fila. Stanno uscendo i ragazzi dello Scientifico, sono una marea come lo eravamo noi nell’altra scuola, le auto dei genitori apprensivi si fermano una alla volta ad attenderli per caricarli formano la fila. Altri, quelli vicino alla maturità che non si farebbero mai passare a prendere dai genitori, escono a gruppi di quattro o cinque e hanno la mia faccia di vent’anni fa, hanno i miei occhi di vent’anni fa.
Dagli occhi, dalle camminate, da pochi gesti colti dal mio abitacolo cerco di decifrarne i caratteri, qualche futuro, un ipotetico presente. Ne passa uno avvolto in un giubbotto color sabbia ma imbottito, capelli corti castano scuri, lisci, ha un accenno di baffi e proprio questo particolare me lo rende simpatico. Non è un teppista, ha l’aria del bravo, troppo bravo, ragazzo. Parla veloce rivolgendosi ad un amico che lo affianca, mi è impossibile tradurre il labiale, parlano troppo veloci, sono troppo lontani, e vanno di fretta come ogni studente che esce di scuola. L’amico è appena più basso, ascolta e ride, ha le mani nelle tasche dei jeans e un cappello di lana che scende fino alle spalle. Una copricapo alla moda, forse reggae.
La fila ancora non si muove, scorgo gli ultimi passi dei due ragazzi e colgo appena gli sguardi, è un attimo, un istante nel quale più di ogni altra cosa vedo nei loro occhi l’idea di futuro, un’idea ansiosa, affamata e affannata. Poi passano lasciandomi alla tortura del mio ingorgo. Benedico subito dopo la mia posizione stanziale e privilegiata quando a seguire gli stessi passi appena raccontati arriva una ragazzina dai capelli biondi e lisci, lunghi, slavata e sognante. Sono troppo lontano per vedere il colore degli occhi. Cammina sforzandosi di guardare in basso, lo fa con ostinazione e con altrettanta ostinazione è costretta a fare i conti con la natura sfrontata della sua età che la tradisce ogni qual volta, e accade spesso in questi pochi secondi, alza lo sguardo e in quegli attimi rivela un collo diafano, lunghissimo che le consente di vedere avanti, molto più avanti di quanto io e chi le gira intorno possa mai immaginare.
C’è un istante di pausa dovuto alla muta di professori che fanno comunella verso le loro auto, ma sono tutti e tutte meno originali, hanno un altro passo, sicuramente non dinoccolato ne’ timido ma sentono il peso di loro stessi, degli anni direbbe qualcuno. Indossano gonne e giacche firmate, sorridono anche loro e tra di loro sembrano una piccola squadra, però sembrano asettici non sofferenti in nessun senso e se soffrono lo nascondono in una idea contemporanea e tristissima di dignità. Sono scivolati via come mi capita di fare anche a me quando il luogo a cui approdare è il porto caldo della casa, il focolare simbolico che di simboli domestici come televisore e divano si fregia.
Ancora un’altra ondata di giovani, questi hanno di certo qualche anno in più, i capelli sono lunghi e i jeans sdruciti per finta, uno ha la cresta, un altro indossa una felpa cappuccio, il gruppo è ingentilito, se così si può dire, da due diciottenni in gonna cortissima di jeans e con sotto pantacalze (speriamo si scriva così) nere. Sono belline, sfrontate decisamente, ridono un po’ sguaiate per farsi notare dai virgulti più intenti nel vociare alto anche loro. Me li immagino tra qualche mese il giorno della prima prova di maturità quando nonostante i muscoli elastici e la bellezza naturale della loro età si presenteranno sfiniti dalla nottata precedente, incurvati e timidastri. Dopo quei giorni salteranno in un’altra vita e si confronteranno con tutte le idee pesanti del nostro tempo: lo studio come parcheggio, il precariato, il consumo di tutto senza godere di niente. Eppure sempre in questi pochi secondi che li scruto da dietro i finestrini mi rendo conto che volenti o nolenti il futuro gli cammina accanto, sono loro, chissà se si rendono conto. Chissà se avranno il coraggio di mutare la linea storta che gli eventi hanno preso?
Suona un altro clacson, stavolta come se l’autista si fosse appoggiato con tutto il corpo sul volante; stavolta mi desto davvero, sobbalzo e mi accorgo che la fila di macchine davanti a me ha ripreso a muoversi da un bel po’, è dietro di me che ancora si stanno ammassando gli automezzi. Sono io che ho creato il caos, la mia sosta sognante alla ricerca degli occhi dei ragazzi s’è protratta troppo a lungo per i tempi veloci dell’oggi, e hanno ragione, avranno fame, qualcuno li aspetterà a casa. Ingrano la marcia e riparto veloce tanto ormai la campanella è suonata da un pezzo.
Springsteen, il liceo (il mio però era diverso, andavo al Classico di Corso Cavour), occhi sognanti e sogni ad occhi aperti.
Mi ha messo nostalgia leggere questo bel post.
Grazie!!!!!