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hannah

di Pamela Grisei

Pensiero e discorso sono la stessa cosa,
tranne che l’uno è un dialogo interno dell’anima con se stessa,
che avviene senza voce,
ed è proprio questo che noi abbiamo denominato pensiero.

(Platone, Sofista, 263E)

Questa non è una recensione cinematografica.
“Hannah Arendt”, è il film di Margarethe Von Trotta del 2012 che in Italia è arrivato sullo schermo solo nei giorni 27 e 28 gennaio, in concomitanza con la Giornata della memoria. Un’occasione che la Scuola popolare di filosofia di Macerata non poteva lasciarsi sfuggire e così il 28 gennaio il gruppo di “filosofi popolari” che fa riferimento ad Andrea Ferroni si è dato appuntamento nel cinema della nostra città per assistere ad una proiezione gremita (questo nonostante la scelta di lasciarlo nelle due lingue originali – inglese e tedesco – con sottotitoli) tanto che, contro ogni programma, il film è stato mantenuto in cartellone anche il giorno successivo.
Anomalo che il cinema si occupi di un filosofo e Hannah Arendt non è di certo tra le voci filosofiche del XX secolo più popolari. Pochi la conoscono e la maggior parte la conosce solo per “La banalità del male”. Chi l’ha conosciuta la prima volta attraverso la scrittura limpida e appassionante di “Vita activa”, soffre sempre un po’ a vederla ridotta all’affaire Eichmann.
Per questo, per me è stato un sollievo che la regista abbia intitolato la sua opera “Hannah Arendt” e non “La banalità del male”, evitando così di schiacciare di nuovo il pensiero della Arendt su quel libro famigerato del 1963 di cui pure il film racconta la storia, dalla genesi agli effetti: “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”.
La sceneggiatura si concentra su quegli anni (dal 1960 al 1964) in cui Hannah Arendt (ebrea tedesca dal 1940 emigrata negli Stati Uniti dopo essere passata per un campo di concentramento in Francia) assistette al processo ad Eichmann – ex tenente colonnello delle SS sotto accusa in Israele per crimini contro l’umanità – ne scrisse il reportage per il “New Yorker”, subendo poi delle critiche asprissime, quasi un linciaggio da parte dell’opinione pubblica, per la sua interpretazione del processo.
Eppure, nel film, c’è molto di più che “Hannah a Gerusalemme”. C‘è Hannah (la bravissima Barbara Sukowa) nella sua vitalità di donna a tutto tondo. Quella che ride di gusto e fuma una sigaretta dietro l’altra (com’era salutisticamente scorretta l’America degli anni Sessanta!), quella che si preoccupa visceralmente per suo marito e per i suoi amici (tanti amici, da ogni parte del mondo, che parlano una Babele di lingue). Hannah che appassiona gli studenti e Hannah che pensa. Non era facile rendere sullo schermo una donna “che pensa”. Per lunghi momenti della giornata la vediamo distesa ad occhi chiusi sul divano, immersa nei suoi pensieri, impenetrabili alla cinepresa.
Ed è proprio il pensiero il filo rosso che corre lungo il film: il pensiero come lo intendevano i suoi amati filosofi greci, la capacità di dialogare con se stessi, quello che, nella nostra interiorità, ci mette l’uno di fronte all’altro, come se fossimo due. Il pensiero che aveva spinto la giovanissima Hannah a varcare la soglia dell’ufficio di Martin Heidegger – astro nascente della filosofia tedesca nella fragile, ma vitalissima Repubblica di Weimar – chiedendogli di “insegnarle a pensare”. (Per inciso, sono proprio tra le cose più sfocate del film i flashback sulla relazione giovanile fra Hannah e il maestro Heidegger, ritratto come un imbolsito signore di perenne mezza età, un amore forse irrisolto per un uomo dall’irrisolto rapporto con il nazismo).
Ed è sempre il pensiero che impedisce alla Arendt di ritrattare le sue idee sul processo ad Eichmann, anche dopo le violente polemiche che seguirono la pubblicazione dei suoi articoli, le minacce subite, il rischio di essere estromessa dall’insegnamento.
Eichmann, invece, non pensava. Non era pazzo né stupido. Non era certo un uomo privo di razionalità: organizzava complicati spostamenti di masse di ebrei da un capo all’altro dall’Europa, si coordinava con uffici di vari livelli nella complicata burocrazia nazista. Era sempre puntuale e rigoroso nello svolgere il proprio dovere. Una razionalità senza pensiero. Nel film lo vediamo nelle immagini originali del processo, ascoltiamo la sua vera voce, cerchiamo qualche risposta nei suoi occhi quasi spaesati dietro i pesanti occhiali.
Almeno, per Eichmann, il male fatto non recava nessun segno di tormento interiore, di coscienza che lotta con se stessa, o, al contrario di odio profondo verso gli ebrei e di passione politica nazista. Nulla di tutto ciò. Il male fatto non era radicato in alcun suo sentimento o convincimento, era un banale obbedire agli ordini. Per la Arendt, però, questo non lo scagionava dalla sua responsabilità personale, proprio perché da essere umano avrebbe potuto – dovuto – pensare. Ma non lo fece, e per questo Eichmann era colpevole.
Comprensibile che questa sua idea (insieme al dubbio ruolo svolto dai consigli ebraici nei rastrellamenti) abbia scosso la comunità ebraica sionista e no. Molti dei suoi amici ebrei non riuscirono a perdonarle un pensiero così libero, coraggioso o arrogante, a seconda dei punti di vista. Anche il devoto Hans Jonas la lasciò sola. Accusata di essere senza amore per il suo popolo, la Arendt affermò di riuscire ad amare solo le singole persone, non i popoli, non le fazioni, non le parti di cui pure fa parte. Convinta, anche se dovette pagare un prezzo alto, che “se non si è capaci di imparzialità, perché si pretende di amare solo il proprio popolo, fino ad adularlo continuamente, allora non c’è nulla da fare”.
Lentamente le polemiche intorno a lei si spensero e poté riprendere l’insegnamento di teoria politica.
Il film si chiude sulle immagini dello scintillante skyline notturno di Manhattan, dove il fantasma dell’11 settembre sembra materializzarsi dal futuro. Altro male. Chissà, cosa ne avrebbe pensato Hannah.

Hannah Arendt, Linden 1906- New York 1975.

(in foto, una scena dal film)