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di Ilaria Piampiani

“Sapevo che a Verdun avevano perso la vita un milione di soldati. Ma non erano che astrazioni, notizie. Non si può soffrire per un milione di morti. Quei tre bambini, invece, li avevo conosciuti, li avevo visti con i miei occhi e questo cambiava radicalmente le cose. Cosa avevano fatto loro, quale male avevano commesso i genitori per meritare tutto ciò? Non restavano che due alternative: o Dio non c’era o esisteva una divinità che era mostruosa nel caso fosse stata potente e inutile se non lo era. Una volta per tutte rinunciai a credere a un essere superiore che guardava l’uomo con occhio benevolo.”
-L’Amico Ritrovato, Fred Uhlman-

Come afferma Uhlman non si puù soffrire per un milione di morti. Possiamo umanamente provare compassione, tristezza, sincero cordoglio ma non possiamo fino in fondo dichiarare di essere dilaniati da un efferato dolore per la scomparsa di un ingente numero di persone. L’Olocausto è stato questo. Non ci dovrebbe nemmeno essere il bisogno di spiegarne l’entità ma purtroppo l’ignoranza e la noncuranza serpeggiano voraci, quasi mascherate da nuove “virtù”, dunque mi sento di ribadire e sottolineare la terrificante portata di un evento che non può che suscitare sensazioni abominevoli. Accanto allo sterminio sistematico degli ebrei, si procedette con spaventosa precisione all’eliminazione di quelle “razze considerate impure” tra cui i gruppi etnici Rom e Sinti, dissidenti politici, omosessuali, malati di mente, Pentecostali, Testimoni di Geova, Sovietici, Polacchi e diverse popolazioni slave, oltre ai quattordici milioni di civili e ai quattro milioni di prigionieri di guerra. Ritengo sia giusto o almeno doveroso fare il nome di tutte quelle culture che sono state inghiottite dal “Porrajmos”, ovvero divoramento, dalla distruzione, dalla cancellazione inaudita e ingiustificata di una storia, di una religione, di un modo di essere, di generazioni e generazioni private dei loro ricordi, della felicità, di quella dignità che spetta a ognuno di noi, che ognuno di noi abbraccia venendo al mondo, che tanto dichiariamo e tanto difendiamo.
Una libertà stuprata, visi scavati dalla sofferenza, corpi martoriati dalla violenza e dal freddo; troppa infanzia incenerita e spezzata, occhi impietriti dalla paura, anime spogliate di qualsiasi speranza. Gli “indesiderabili” tolti dalle loro case, denudati, costretti a nascondersi come topi in una credenza troppo stretta, costretti a fuggire come ladri o criminali, costretti a vergognarsi perché così la pazzia umana ha deliberato. Le famiglie non potevano più esistere, divise e condannate a un addio troppo breve e straziante, senza nemmeno il calore di un abbraccio o la rassicurazione di uno sguardo.

La beffa e l’oltraggio, il silenzio e l’omertà, il pregiudizio e l’abbandono, l’indifferenza e l’ipocrisia: “peccati sociali” dai quali tutti vorremmo discostarci, ai quali non vorremmo mai e poi mai essere assimilati. Ma possiamo dire davvero oggi di esserne totalmente immuni? Possiamo affermare di aver sviluppato una più marcata e spiccata sensibilità ed empatia verso il genere umano? Siamo effettivamente in grado di poter dichiarare di essere stati curiosi e attenti alunni della storia, imparando a non ripeterne gli sconvolgenti errori?
Le molteplici cerimonie, trasmissioni televisive, tweet, comunicati ufficiali, visite ai lager sparsi per Europa che si succedono febbrili nel giorno della memoria, sembrerebbero dare una ferma risposta al quesito. Siamo in grado di commemorare, di ricordare, di giudicare una tale violenza inammissibile e irripetibile in futuro. Invece senza nemmeno accorgercene, ed è qui che si cela il tragico, ci abbandoniamo al silenzio di un’indifferenza che pesa come un macigno, al pregiudizio, all’ipocrisia, più spesso di quanto crediamo. Quando ascoltando il telegiornale passiamo con inquietante non-chalance dalla notizia di più di trecento immigrati morti nelle nostre acque, alla moda del prossimo autunno/inverno, quando leggiamo di un ragazzino gay che si getta dal quarto piano e di corsa cerchiamo il nostro oroscopo sull’ultima pagina, quando non ci curiamo delle condizioni di una prigione psichiatrica perché “tanto sono tutti dei pazzi delinquenti!” e poi la domenica non ci perdiamo la messa.

Molti di noi si ricorderanno del grande polverone mediatico sollevato dalla strage del 3 Ottobre in cui hanno perso la vita 339 persone, cosa che sembra essere passata in secondo piano per cause di forza maggiore come i bisticci dei nostri politicanti o la vita amorosa dell’ultima ragazza immagine della televisione. 339 esseri umani, bambini, donne, uomini chiusi in sacchi neri insieme alle loro speranze, alle loro ambizioni e ai sogni che li hanno portati ad affrontare l’inferno pur di provare a vivere dignitosamente. Una meravigliosa spiaggia coperta dalla morte scura come la pece, dal rammarico di non essere accorso, dal pianto dei superstiti. Il tutto attorniato da un’Europa dal silenzio assordante, da una parte dell’opinione pubblica sorretta da parlamentari di cui dovremmo vergognarci che intimamente sono dalla parte del “potevano starsene a casa!”, da chi chiede a gran voce giustizia dimenticandosene una settimana dopo. E cosa ne è dei sopravvissuti?
Recente è la vergognosa notizia che ha attirato giustamente sdegno e critiche da parte del mondo intero riguardo l’inadeguatezza e i maltrattamenti che gli immigrati subiscono nei Centri di Accoglienza a Lampedusa, ben documentati da un video divulgato dal Tg2. Uomini denudati e sottoposti a “metodi d’igienizzazione”, se così possiamo chiamarli, senza alcun rispetto della persona e della dignità umana, come fossero bestie da macello senza un nome o una personalità. Uno scandalo che inevitabilmente ci fa porre diverse domande: ad esempio perché questi immigrati vengono trattenuti, in alcuni casi addirittura fino a un anno e mezzo, quando dovrebbero trascorrere lì solo alcune ore essendo Lampedusa un CPSA (Centro di primo soccorso e accoglienza)? Come mai la notizia suscita un tale improvviso ribrezzo e scandalo nei nostri politici quando diverse esplicite denunce e condanne erano state scritte e stampate nero su bianco da articoli come quello de il Corriere della Sera del 10 aprile 2012 scritto da Raffaella Cosentino dal titolo“Viaggio dentro ai Cie tra pestaggi, psicofarmaci e strani suicidi, oppure quello del il 13 maggio 2013 uscito su La Repubblica che riporta la denuncia dell’associazione “Medici per i diritti umani”: “Condizioni di vita inumane, peggio del carcere” , o la denuncia di Elisabetta Povoledo sul New York Times? Perché anche le parole di Felice Romano, segretario generale Siulp, che descrivono tali centri in discussione come “lager disumani”, non hanno avuto il giusto ascolto?

La parola lager ci sembra così lontana dall’Italia, dal nostro periodo storico e dalla nostra concezione di civiltà, che vederne la concretizzazione sul nostro suolo nazionale fa venire la pelle d’oca, o perlomeno dovrebbe. Troppi giorni della memoria sono trascorsi, tra commosse cerimonie e maratone di leggendari film sull’Olocausto, senza che noi cittadini ci accorgessimo che in un fazzoletto di terra di cui dobbiamo sentirci responsabili, pur essendo a chilometri di distanza, stava accadendo una simile atrocità, all’interno di alte mura, bloccate da cancelli sorvegliati da discutibili forse dell’ordine.
Lager sono, inoltre, i cosiddetti Opg, ovvero gli ospedali psichiatrici che ci ostiniamo a tenere aperti in mancanza di fondi per dare vita a strutture più consone. Quella di questi cosiddetti “ospedali” è una realtà altrettanto orrenda e vergognosa per l’Italia, «Una realtà in cui si dovrebbe curare l’infermità mentale, ma l’assistenza medica viene garantita da un infermiere ogni 25-30 internati e l’assistenza psichiatrica è assicurata per trenta minuti al mese; dove stanze da quattro ospitano nove internati su letti a castello, condizione che è stata definita ‘tortura’ dal Consiglio d’Europa», come denunciato da Ignazio Marino, responsabile dell’inchiesta sulla sanità italiana nel 2011.

Dunque tutto questo per ribadire che riusciamo senza dubbio a condannare uno scempio lontano negli anni ma non ci interessiamo, come dovremmo, ai terribili soprusi che abbiamo praticamente sotto il naso. Tanto si tratta solo di poveri pazzi, di delinquenti che sbarcano nella prima “America” raggiungibile solo per derubare e ingannare, vero? Di questo siamo capaci, di piangere in maniera comoda e astratta milioni di morti fucilati, in camere a gas o forni crematori, non riuscendo poi a fare autocritica, a cercare, almeno, di alzare un dito per esprimere un minimo di indignazione.
Fortunatamente, però, non siamo fatti con lo stampino noi italiani, perlomeno non al 100%. C’è ancora chi ha il coraggio di organizzare iniziative scomode come il professor Massimo Puliani, curatore del progetto “Nuovi e vecchi lager: schock immigrazione”, titolo eloquente di una giornata, domani 23 Gennaio, dedicata alla memoria ma in maniera inedita. Guardare al passato diventa il trampolino di lancio per aprire gli occhi e davvero vedere il presente; un invito aperto ai giovani a pretendere la verità, ad affrontarla e cambiarla dando una testimonianza attraverso la scrittura, l’arte e la produzione di video, come nel caso di Loredana Fedeli e Hisako Mori. Intellettuali e autorità locali, come Alessandro Seri, Piergiorgio Pietroni, Giovanni Seneca, Marcica Violini, gli assessori Massimiliano Bianchini e Federica Curzi, tra gli altri, insieme al contributo video di un’intervista al sindaco di Lampedusa Giusy Nicolini, interverranno all’intenso incontro nell’Auditorium Svoboda dell’Accademia delle Belle Arti.

Ricordare per non dimenticare, sì, ma soprattutto ricordare per non commettere più gli stessi errori, le medesime atrocità. Gli anni, i decenni passano e con essi dovrebbero anche svilupparsi le civiltà, essere affermati e difesi i diritti umani. Un’utopia, forse, ancora destinata a rimanere tale nonostante le leggi e le ampollose ma necessarie dichiarazioni. L’Olocausto non è solo una parola ma ci sono volti, diari, foto, scarpe, occhiali, bambole, capelli, vestiti in essa. Ci sono legami familiari, padri, madri, figli, sorelle e fratelli, amici in essa. C’è il dolore, c’è la tortura, il trauma, il suicidio di chi non è riuscito a sopravvivere agli incubi pur essendo uscito “biologicamente vivo” da un campo di concentramento. Ci sono gli sguardi persi di chi non ha avuto in dono la lucidità ed è destinato a marcire nell’oblio di una stanza nel 2014.
Nella parola Olocausto ci sono, per dirlo con le parole di Edmondo De Amicis, gli immigrati con gli

“occhi spenti, con le guancie cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s’ascende il palco de la morte. […]

Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.”