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di Giulia Boschi
Sentir parlare di furti in un museo mi riporta sempre alla mente figure di ladri gentiluomini come Lupin o di maestri del crimine come Diabolik.
Cominci a immaginare come lui o loro, se si tratta di una banda, abbiano pianificato il colpo nei minimi particolari, pensando ad ogni singola mossa, come nel film “The Italian Job”.
Tra infiltrati nel personale delle pulizie, per studiare la struttura interna dell’edificio in cui compiere il furto e il solito signore con impermeabile e occhiali da sole, che ne spia, attraverso due buchi sul giornale, tutte le dinamiche e gli orari. Per non parlare del semplice furgoncino bianco, che al suo interno cela sempre un avanzato sistema computerizzato da cui il solito nerd della banda dirigerà i suoi complici.
Visto sotto questo lato romantico il ladro di opere d’arte assume un’aria affascinante e, per quanto non lo ammetteremmo mai ad alta voce, quando sentiamo una notizia simile, finiamo con l’ammirarne un po’ l’impresa.
Come molti sapranno lo scorso 6 gennaio, anche se la data del furto non è ancora così sicura, sono stati rubati presso il Museo civico e diocesano di Visso alcuni oggetti d’argento risalenti al Settecento, tra cui un paio di lampade a olio, fermacapelli, collanine e alcuni paramenti sacri. Tutte cose che, date le loro ridotte dimensioni, potevano essere facilmente portate fuori dal museo di nascosto, magari anche in tasca.
Non si sa bene quanti fossero ancora i ladri, ma in fondo la vera notizia, questa volta, non è stata tanto quella del furto in sé, il cui valore totale ammonta a qualche migliaia di euro: l’attenzione di tutti, giornali compresi, è rimasta puntata su ciò che i ladri non hanno rubato.
Sembrerebbe proprio che i malviventi non si siano accorti che al museo fossero esposti anche preziosi manoscritti autografi di Giacomo Leopardi, tra cui una delle uniche due copie esistenti de L’Infinito, i cinque Sonetti scritti in persona di Ser Pecora Fiorentino Beccaio, l’Epistola a Carlo Pepoli, la Prefazione alla seconda edizione delle rime del Petrarca e alcune lettere, quattordici in tutto, scritte tra il 1825 e il 1831 e indirizzate agli editori Stella.
Insomma più che di Arsenio Lupin sembrerebbe trattarsi della Banda Bassotti, o almeno ciò è quello che si evince da tutti gli articoli, inerenti l’argomento, usciti nei vari giornali locali.
Va anche detto però che il furto è stato scoperto dal custode del museo solo una settimana dopo del fatto e che, visto il valore degli oggetti esposti, i sistemi di sicurezza previsti non sono assolutamente all’altezza. Il museo resterà infatti chiuso fino a che non verrà istallato un sistema di videosorveglianza.
A questo punto mi chiedo, ma perché? Prima non c’era? Parrebbe di no dal momento che, nonostante nel 2004 il museo sia stato restaurato e predisposto per un sistema di telecamere, la mancanza di fondi ne ha purtroppo impedito l’installazione.
Nella cronaca locale (posto qui un link a titolo di esempio http://www.viverecamerino.it/index.php?page=articolo&articolo_id=446923) leggo poi che il direttore della rete museale dell’Arcidiocesi, il professore Pier Luigi Falaschi, venuto a conoscenza del fatto, abbia tenuto a rassicurare tutti affermando che i manoscritti leopardiani non hanno un grande valore e che solo chi ne fosse veramente interessato, per sfizio o passione personale, penserebbe di rubarli.
Al che mi sovviene un’altra domanda: Giacomo Leopardi era un poeta, dunque la sua arte era scrivere poesie, Munch e Leonardo Da Vinci invece erano pittori, anche chi ha rubato “L’urlo” e “La Gioconda”, lo ha fatto per togliersi uno sfizio?
Ovviamente sto generalizzando, ma ritengo che, se proprio dobbiamo puntare il dito contro l’ignoranza degli autori del furto, che non si sarebbero resi conto di star portando via solo delle briciole, e farci magari anche quattro risate, dovremmo a maggior ragione ringraziare la fortuna, che ci ha permesso di poter continuare ad ammirare gli autografi di Leopardi, data l’attenzione che ad essi viene riservata, così come alla cultura in Italia e ai suoi tesori.
(in foto, il manoscritto di Visso de L’infinito)
Il prof. Falaschi è stato usato come falso bersaglio: egli ha in realtà affermato che oggetti preziosissimi e assai noti, come appunto i manoscritti leopardiani, solleticano i ladri meno di quelli modesti perché non sono facilmente piazzabili.