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La “Dutty dykie nigger” dopo aver ruggito per anni assieme ad una delle band più trascinanti degli anni novanta, dopo aver sconquassato il pubblico in poghi che fanno invidia ai più illustri gruppi metal, Skin, l’ugola d’oro ribelle degli Skunk Anansie, è entrata nel club: quello dei dj. E nel girone dei club ci entra proprio fisicamente visto che stasera sarà al Mia Clubbing, discoteca di Porto Recanati. Non è la prima tappa italiana da dj che fa questa, infatti era stata già nel nostro paese in veste di regina della notte patinata negli anni passati, tra cui una sera a Campobasso davanti ad una platea di 1.500 persone. Mica male. Certo di sicuro non c’era nessuna “Little baby swastikka” da smascherare, nessun colore della pelle da rivendicare, nessuno a cui spiegare il significato dell’ambigua “She’s my heroine”, nessun microfono lungo il quale far scivolare le dita piano cantando “Milk is my sugar” con la sensualità selvaggia della pantera fuori dal recinto.
“In un club è diverso, tu sei lì per loro, devi lasciar perdere il tuo ego e devi creare un flusso continuo di energia, devi mettere i dischi giusti, non solo quelli che piacciono a te e devi riuscire a tenerli incollati alla pista tutta la notte perché sei tu l’anima di quella serata, altrimenti il proprietario del locale non ti chiamerà più. Alle persone non gliene frega niente se sei una cantante famosa, se metti un disco che non gli piace te lo fanno capire molto bene, anzi te lo vengono proprio a dire”. Parole sue. La parte della modestia dell’artista non basta a soggiogare la visione della rockstar che teneva in pugno un oceano di persone in tumulto tra le note imperiose di Charlie Big Potato sudata che la pelle nera brillava sotto la luce dei riflettori, monade pazza incontenibile sul palco. Quella stessa Skin scende dalla sua auto e porta il popolo dei club e della musica campionata a sballarsi tra un cocktail e l’altro. In che modo un buon mixaggio della musica durante la serata, il preservare uno stile proprio più per il club che per l’artista si avvicina alle liriche scritte di proprio pugno, spremendo col sangue una parola in più, aprendo voragini sulla propria vita? Le hanno chiesto da dove viene questa passione e lei ha risposto facendo spalucce: “Ho imparato a mixare molti anni fa ma non sono mai uscita allo scoperto, non volevo cadere in quel cliché della rockstar dj, però poi ho pensato: chissenefrega, adoro troppo la musica è arrivato il momento di uscire allo scoperto”.
Sulla reversibilità della carriera della cantante di Brixton si potrebbe disputare a lungo e senza nessuna conclusione. La cosa certa, invece, che è sotto gli occhi di tutti poiché dato di fatto è che la vera rockstar ormai è il dj. Prendete un adolescente a caso e quello più a caso di tutti vi dirà che vuole fare il dj da grande, oppure che vorrebbe sfondare come rapper ma questa è un’altra storia. Nel sentire odierno per ‘rockstar’ si intende una persona molto egocentrica che crede di avere degli ottimi gusti musicali e si accozza alla consolle elargendo il suo repertorio remixato da urlo che di sicuro farà tendenza, ovvero: ‘star’. Con il sostantivo ‘rock’ si delinea l’attitudine da stronzocheselatira. Bingo. Serate pagate conquistate. E sì che è passata l’era in cui il dj era il nerd (sfigato davvero però) che ‘metteva su’ la musica alle feste di classe al liceo. Dimenticate quella versione lì. Ora il dj raggiunge livelli sociali e veniali dei calciatori. Difatti, dal mondo giungono notizie su un certo scozzese Calvin Harris che nel 2013 ha guadagnato qualcosa come 46 milioni di dollari con questa professione. Eh sì, non si possono chiamare più semplici disc jokey ormai perché animano un’intera serata, fanno sì che il locale guadagni in bevute fino all’alba: costano poco rispetto a quanto fanno guadagnare. Esattamente l’opposto dei concerti. Il dj nel 2014 porta la gnocca con sè, viaggia in jet privati e i marchi più glamour della moda quasi se li litigano per promuovere i loro prodotti. Delle vere e proprie star alle quali anche artisti internazionali si affidano a loro per il remixaggio di alcuni brani, alla spasmodica ricerca del tocco moderno e cool nel sound dei loro dischi come ad esempio i Keane, o Lenny Kravitz. La ricerca dell’elettronica, la ricerca del suono estraneo a quello originale: è completamento di un brano o semplicemente un’altra versione? “I’m the dj, i am what i play” diceva il caro Bowie.
Non si può dire neanche che quella del dj sia una moda poiché è ben radicata del music business e, quindi, nell’entertainment da quarant’anni ormai. In Italia la radio più ascoltata e con maggior gradimento è Radio Deejay che, in qualche modo, si fa veicolo divulgativo della musica nel nostro paese. Una stazione radio come gigantesco spot di musica commerciale intervallata dai deliri dei suoi conduttori come se fossero in pista. Anche questo fa tendenza, detta le condizioni, concima il nostro territorio.
Il problema non è amare la musica elettronica, divertirsi tra i suoni piegati e convulsi della techno, essere affascinati dalla manipolazione del suono ed avere il gusto di trasformare un brano in qualcos’altro. Il problema è che c’è troppa discrepanza tra la presenza di discoteche e quella di live club dove poter far suonare. E allora nelle periferie ci si ritrova colossi asettici come il Magga, il Baxster, il Gate Clubbing che spianano e asfaltano ogni traccia di verde-musica suonata, distorta, pensata. Il problema è che tempo fa una musicista come Skin trasudava odio per questa collezione di manichini che si muovono senza capire cosa ascoltano, per lo più; vomitava attraverso il microfono la sua distanza tra lei e il mondo finto che non l’apprezza. E adesso rimane da guardare Skin che brinda tra bollicine e paillettes del sabato sera.
(foto da www.video.donnamoderna.com)
L’ha ribloggato su Der Wanderer|strade d'ascolto.
…chissà poi come è stata la serata?