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di Eleonora Tamburrini
Pensare di raccogliere in unico volume l’opera in versi di una vita è qualcosa che fa tremare le vene ai polsi, credo, a chiunque abbia in qualche modo a che fare con la scrittura. Si tratta fra l’altro, ma forse è già tutto, di venire a patti con l’inizio e con la fine, per quanto provvisoria, di un lungo percorso: da dove riprendere il bandolo, dove condurlo, quanto esporsi a una nuova lente più severa, che cosa sommessamente sottrarle. Ci si illude che sarà il tempo a decidere, che sopravviveranno il verso, la parola capaci di resistere in sé; eppure sarà proprio chi scrive, lui solo, che sveglierà con riluttanza gli abitanti dei suoi abissi personali, ritrovandoli intatti nell’inganno della finitudine. Difficilmente si asterrà dal turbarli.
Danilo Mandolini, presenza singolare ma pure esemplare della ricchissima temperie marchigiana, tenta l’impresa, tornandone con un volume quasi quadrato, corposo e giallo, che reca in copertina un’indicazione discreta di percorrenza, “A ritroso”, e l’arco su cui disporsi alla lettura, 2010-1985.
Ciascuno potrà concedersi, magari dopo un primo approccio svelto e ordinato, tutte le digressioni del caso; dovesse smarrirsi, si troverà guidato da un’architettura di premesse, sezioni, numerazioni, note filologiche, in grado di riportare generosamente alla luce un processo che supponiamo non indolore, e lento. Il risultato è una sintesi complessa che diventa altro rispetto alle sue componenti, un’immagine nuova dell’autore che si delinea nella selezione di testi già editi, nel parziale rimaneggiamento di quelli più datati, nell’abbandono di altri, infine nell’inserimento dei versi inediti in apertura. Un’immagine nuova dicevo, eppure all’apparenza di sconcertante fedeltà: colpisce infatti dell’insieme la compattezza, il grado di levigatura, la sincronia quasi a dispetto del tempo che scorre. Ma non si avverte un intervento uniformante a posteriori: è proprio una costanza del sentire, un patto a vita col proprio personalissimo dettato.
“A ritroso” è il racconto di una mutazione corsa negli anni sottopelle, quasi impercettibilmente; e certo contribuisce alla prima impressione l’uniformità del metro e del lessico. Al respiro disteso e regolare dell’endecasillabo corrisponde la scelta oculata di voces mediae, sostantivi eretti come totem a un nume lontano e assorto, raramente orientati da aggettivi e quasi sempre raccolti da una sintassi che arriva a coincidere con il verso (“Conservo delle notti ciò che resta / un fremito il vuoto, il far del giorno; / lascio un po’ di me sopra gli oggetti / ed attendo gli uomini apparire” (28)). Una forma che potremmo dire classica, per quanto sia difficile venire a patti con un termine a vocazione trasversale; però se qualsiasi orientamento poetico, anche il più innovativo, anche il più sperimentale, finisce per dettare una linea quando si diffonde e diviene maggioritario, la voce di Mandolini resta rispetto a questi anni come sospesa, intatta, sobriamente refrattaria. Naturalmente non si tratta di anacronismo, né di mancanza di confronto, anzi. Ci dice bene in prefazione Fabio Franzin quale accezione di riservatezza si debba convocare per Mandolini: quella della meditazione fertile, della segreta sedimentazione, dell’onesto somigliare a se stessi, della presenza che non presenzia ma c’è.
Dicevo di un’evoluzione impercettibile, una stasi solo apparente nella poesia di Mandolini: il fatto è che, paradossalmente, il contegno e la misura apollinea disorientano. Versi come “…si separa il suono dalla voce, / lo si lascia in sé precipitare / qui filtrato come da un colino /torna ad essere cosa che si vede…” (37) o risalendo molto indietro nel tempo “Allontano una mano dal volto / perché possa apparire distante, / perché possa di nuovo essere vista” producono in chi legge un effetto di iniziale distacco, la convinzione che dietro parole così piane, dietro virgole così insolitamente puntuali ci sia più che altro una tentazione astratta. Solo a una lettura più profonda si rientra in contatto con una realtà molto più materica, con situazioni e gesti quotidiani che covano un potere rivelatore. Penso a sorgenti microscopiche (il filtro del colino, il “sedimento quasi liquido” sul fondo del bicchiere (29) ) che riproducono il deposito lento e gigantesco della storia, il passato che precipita in noi. Mandolini sorprende perché traduce questi trasalimenti in una poesia rarefatta, asciugata: non un’asperità, pochi giochi, rari effetti destabilizzanti, solo un ritmo che non teme risacche e accalmìe e che inesorabilmente ci costringe ad allontanare la mano dal volto, a riconoscerci.
Quella di Mandolini è poesia nata alla finestra, perché è all’interno di questo confine lineare che, come nel quadrilatero di Zanzotto, si rende possibile la scrittura. Anche qui c’è molta geografia riconoscibile, la lingua è di terra e si distende: “Strappi d’un cielo chiaro senza veli / in bilico da sempre sopra i monti; / le colline azzurre all’orizzonte / che paiono radici allo scoperto.” (31). Altrove il paesaggio resta dietro, ma si riverbera nei silenzi, nei colori, nel rifrangersi delle forme: “Il mare di lassù è un grande specchio / azzurro nell’azzurro che gli è sopra” (33); “Spirale di fragori in divenire, / il blu che tocca terra dappertutto” (30).
La finestra poi è spesso chiusa, come se servisse un vetro a fare da antro trasparente, divisorio dalla vita per la messa a fuoco, infine vano nascondiglio. Da questa postazione reale o simbolica Mandolini assiste anche alla vita della città, dai passaggi più idillici a quelli marcatamente civili: “DALLA FINESTRA IMMERSA NEL BUIO / SI VEDE UN GRUPPO DI UOMINI PERSI / CERCARE IL FUOCO CON GLI OCCHI, ANDARGLI INCONTRO CURVI E CARPONI /SOTTO IL BAGLIORE INTERMITTENTE / DELLA FITTA SEQUENZA DI TRACCIANTI”(127). Qui la trincea “delle genti tutte e disarmate” non è una misura eccezionale, piuttosto il letto ordinario dove scorrono i nostri corpi di lavoratori più o meno sfruttati, piegati, ignari; così come un flusso l’abitudine ci ricopre e ci scopre, svegliandoci ogni tanto a contemplare l’orrore che ci culla: “La città è fragile e selvaggia / costruita sul sangue e sulle vene, / sopra il sogno che porta dalla spiaggia / la vita e la morte della sabbia”.
“A ritroso” è un dialogo del poeta con l’assenza. Di senso sociale, e ancora più ampiamente di appigli per resistere all’improbabile sorte di essere nati, quindi esposti a tutte le forme dell’abbandono.
Tra queste la malattia del padre, raccontata soprattutto in “Radici e rami”, rappresenta la massima figurazione del logoramento, della lunghissima fatica di morire come rovescio dello stare felicemente al mondo. Per chi resta, provvisorio e cosciente, c’è l’assenza, che è ben altro rispetto al vuoto, e arriva dopo l’abbandono; sopravviene quando al dolore subentra uno stato di semi indifferenza, un torpore medio, quasi plastico, che prende atto del tempo e ottunde la nostalgia. Una volta conosciuta non se ne potrà più fare a meno, essendo in fondo l’assenza una forma estrema di speranza.
Mandolini fa sì che questa visione abiti tutta la sua poesia, e si espone al rischio costante di esaurire il potere stesso della parola “assenza” e dei suoi molti derivati lasciandola letteralmente imperversare nei testi. Funziona, perché qui l’assenza non è romanticismo di maniera, ma esperienza tangibile, luogo reale, stanza; come quella che il memorabile “signore vestito di chiaro” di un racconto di Manganelli scopriva all’improvviso in un recesso di casa sua, “zona di assenza” e a un tempo “spiegazione della sua sopravvivenza”.
Nulla di più reale, l’assenza arriva infine nelle vesti di un passante a chiudere quasi la raccolta (o ad aprirla) e a suggerire la poesia come unica infiltrazione possibile, la creazione che ci rende il buio necessario.
Provo a trattenere un po’ del tempo
che sgorgando cancella le parole
Ora cado, mentre cado, con la pioggia
verso il basso disegnando questo giorno.
«Ricopriti lo sguardo!» fa un passante;
«A cucchiaio le mani sopra gli occhi.
Lascia che il buio sia un po’ luce,
che nulla t’impedisca di morire».
Danilo Mandolini, A ritroso, Edizioni L’Obliquo, 2013
(fotografia: “La notte lava la mente” di Mario Giacomelli)
Un testo ineccepibile di poesia analizzato con cura. Mi piace il ragionato e progressivo svelamento dei processi fondanti questa poesia. Dal punto di vista centrato sulla forma a quello più ampiamente ermeneutico, ogni rilievo critico sembra avere due finalità, entrambe aventi lo stesso rigore: attrarre chi semplicemente legge e stimolare l’addetto ai lavori, il critico. Non sembrino requisiti ovvi, applicati all’analisi della poesia contemporanea, raramente si trovano insieme con equilibrio. Ritornando su “A ritroso”, mi hanno interessata dell’opera anche certe figure retoriche e “topos”, nuovi negli accostamenti, rispetto i canoni tradizionali. Sono stati sottoposti ad un’opera di straniamento assai vivificante ed originale. Una classicità, quella di Mandolini, che sfiora dunque vertiginosamente il futuro. Marzia Alunni
Grazie per l’ascolto prezioso. Eleonora Tamburrini
Grazie a Danilo per questi testi che scavano il muro mostrando l’assenza che incide in tutti noi il filo del sorriso quotidianamente, tra un passo e l’altro del vivere. Mi ha stupito nel libro la cadenza insieme delicata e perentoria, la scoperta di una minimalità che ci gocciola dentro fino a ferire, fino a dichiararci nudi insieme ad altri nudi dal destino comune. In una levigatezza, come ha sottolineato giustamente Eleonora, che si comprende prodotta dagli assidui ripensamento e rilettura della trama di versi intessuta negli anni. Appunto, “un patto a vita col proprio personalissimo dettato”, da ririfmare quotidianamente, onestamente, con coraggio e sguardo teso.
mdp
rifirmare, pardon