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di Eleonora Tamburrini

L’ultimo giorno è davvero il più crudele, con la sua tradizione di bilanci e toni epici: questioni da schivare alla meglio tra i fuochi sparati in terrazza, i tubini neri d’ordinanza e quel piatto di lenticchie che si sa, prima che un auspicio di ricchezza, porta con sé l’eco di una scelta un po’ sventata. Di peggio c’è solo il primo settembre, un giorno in cui davvero si ha l’impressione della fine; non a caso era quello il Capodanno bizantino, in un tempo che conosceva bene il senso delle frontiere.
Il 31 dicembre nulla si chiude davvero, ma se dobbiamo voltarci indietro a guardare facciamolo, consapevoli che il solo gesto ci costringerà a lasciare molto alle spalle, e forse sarà un bene: risalendo all’aria e alla luce si sbricioleranno le cose già morte, i nostri cari fossili tenuti finora al riparo.
Tra ciò che resisterà, c’è questo giornale. Chiamatelo web mag, blog collettivo, testata di approfondimento culturale, o col suo nome: L’Adamo compirà stanotte il suo primo anno di vita.

C’è ancora chi chiede il perché di un giornale online che parla solo di cultura, si concentra su una dimensione locale e per giunta esce tutti i giorni con articoli insolitamente lunghi e approfonditi.
Si tratta di perplessità a quanto pare inevitabili in un tempo in cui l’informazione culturale si è rappresa in trafiletto, la famosa terza pagina è slittata oltre la coda, e chiunque abbia ancora qualcosa da dire in merito cerca l’egida di una testata di sana cronaca generalista. Quanto a noi, non aspiravamo a diventare una rubrica ancella di altri settori, al traino di altre più urgenti notizie; e neppure volevamo crearci ciascuno il nostro blog personale. Abbiamo cercato di superare gli egocentrismi e convogliare gli interessi di molti addetti ai lavori in un unico progetto che si saldasse all’esperienza dell’Adam, l’Accademia degli artisti maceratesi, e mantenesse la varietà e l’originalità delle singole voci che si sono unite alla redazione in modo stabile o occasionale. I risultati sono stati e saranno variegati, ma il vecchio gioco che sta alla base, cercare di creare qualcosa inventandone il nome, sta riuscendo perché dietro sussiste un’idea molto precisa di approfondimento culturale: occupare gli spazi potenzialmente sconfinati della rete senza assorbirne passivamente le regole; non rassegnarsi al diktat della velocità senza direzione; consegnare ai lettori una rada quotidiana dove praticare la sosta, la lentezza; non avanzare, pur nel nostro essere settoriali, alcuna pretesa di autarchia, quanto piuttosto offrire un punto di vista preferenziale e inclusivo sulla realtà.
D’altronde l’idea di una cultura di nicchia è un grande inganno praticato da tempo ai danni della cultura stessa e innescato da chi, in Italia e altrove, ha lavorato perché l’esperienza letteraria, artistica, musicale diventasse un lusso, un annesso, una presa d’aria occasionale – e per giunta stravagante, presuntuosa – rispetto al vivere ordinario e garantito. Della serie: per l’inessenziale consultate il pratico allegato.
Se a livello esistenziale il dissidio potrà anche rimanere sempre valido, è però inaccettabile come prassi sociale. In altre parole, l’artista potrà affermare di essere giunto alla più completa liberazione – e quindi alla creazione- in risposta all’ostilità sociale nei confronti del proprio lavoro, ma non potrà smettere, assieme al suo pubblico, di esprimere il proprio dissenso. Il problema è appunto il pubblico, sempre più ristretto, ignorato, colpevolizzato, o trattato alla stregua di una platea televisiva da orientare e compiacere; tra l’autoisolamento nella torre d’avorio e la deriva pop c’è poco di cui stare allegri.
L’Adamo ha voluto inserirsi in questo quadro, che riguarda l’italia e di riverbero la nostra provincia; abbiamo descritto le opportunità e le ricchezze di un territorio, ma anche raccontato i paradossi cui abbiamo assistito: i luoghi misconosciuti e abbandonati, la proliferazione delle più varie manifestazioni sotto l’appellativo consolante e traditore di festival; la distribuzione sproporzionata delle risorse (economiche, ma anche umane, logistiche, mediatiche) tra l’eventismo forsennato e occasionale e le piccole, ostinate realtà che operano in maniera continuativa sul territorio; la riduzione drammatica di quelle stesse risorse per l’inettitudine, l’ignoranza o il dolo di una classe dirigente sempre più scollata dalla vita.
Più ampiamente, chiunque per vie diverse abbia scelto di dedicarsi all’arte e alla cultura in questo paese si sarà sentito, in questo ultimo anno e in quest’epoca, quanto meno umiliato; gli risuonerà ancora in testa quel grottesco 1,1% di spesa pubblica destinato a scuola e cultura che ci ha relegato all’ultimo posto in Europa pur avendo il massimo delle risorse, delle opportunità, della bellezza a disposizione. Possibile che l’Italia abbia un così misero bisogno di scrittori, musicisti, scienziati, pittori, docenti, filosofi, studiosi d’arte, attori? No, dobbiamo essere consapevoli che si tratta piuttosto del falso mito della cultura fatta da pochi per pochi in cui si crogiolano i finti intellettuali e di cui approfittano i potentati; è la domanda contraffatta di un mercato che non riflette le necessità reali della comunità ma solo se stesso. La questione, pur vistosa in Italia, è globale; scrive l’antropologo David Graeber con semplicità disarmante: “Se la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1 per cento della popolazione, allora quello che definiamo “mercato” rifletterà ciò che loro, e nessun altro, considerano utile o importante”. Il paradosso estremo è che questo ridotto, incancrenito nucleo di potere è arrivato a controllare indirettamente anche l’indignazione, paralizzandola dentro lavori stupidi e orari permeanti, trasformandola in benaltrismo, reindirizzandola infine contro le attività realmente utili e vitali per la comunità intera: tra queste la ricerca, l’arte, l’insegnamento, che negli ultimi anni hanno subito un crollo, nelle risorse come nel prestigio sociale percepito. Contro questo sistema, programmato o inconscio che sia, occorre una resistenza severa, secondo le forme e i dispositivi più diversi; dai movimenti di protesta internazionali al giro stretto, strettissimo dei propri luoghi, dove la deriva sembra meno evidente e drammatica solo perché ci ingannano la familiarità, l’abitudine, la prospettiva ravvicinata.
Nel tentativo di dare un pur piccolo contributo a questa sorta di opposizione, nel corso del primo anno del giornale abbiamo seguito con spirito piuttosto onnivoro le proposte culturali del territorio: abbiamo dato spazio ai grandi nomi dello show-biz al centro delle maggiori stagioni teatrali, ma sostenuto le iniziative di sperimentazione e ricerca e gli spettacoli più innovativi; scritto dei concerti di richiamo nazionale, ma anche raccontato il panorama musicale indipendente; descritto le kermesse con le loro celebrità, senza smussare i dubbi e le critiche; approfondito le iniziative letterarie, le mostre e le novità editoriali che fanno viva la città. In definitiva, abbiamo preferito gli spazi capaci di creare giunture, suture, relazioni; insomma quelli davvero produttivi, anche se più lenti al successo, più opachi e refrattari a diventare immagine, intrattenimento, diversivo. Sperando di diventare uno di loro.
Ne è scaturito uno sguardo d’insieme che vuole essere onesto, il più possibile completo e indipendente, capace di diventare a volte persino un racconto, bello, originale, che ci appartenga. Tutto questo per inseguire, con una buona dose di antagonismo ed entusiasmo, la strana idea di rendere un servizio alla comunità, se si può usare questa parola in una data fatidica senza patetismi, senza che tintinni alcun bicchiere da discorso solenne.

Non ho pensato a nessuna lista di buoni propositi da aggiungere in chiusura. Vedo che ovunque fioccano questi lunghi elenchi disparati, ma a me non viene in mente altro che qualche abbozzo poco nobile e molto personale tipo svuotare la cache o imparare il flamenco. Tutte cose fortunatamente rimandabili. E del resto già un anno fa ci siamo armati delle migliori intenzioni e non serve aggiungere altro se non che continueremo su quella strada, ostinatamente.
Buon anno a tutti, e desiderate senza cautela.

(in foto: persone giocano in un fascio di luce tra le ombre dei grattacieli di Boa Viagem a Recife, in Brasile. La foto è tra le più belle del 2013 secondo Reuters)