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di Elisa des Dorides

E’ un venerdì sera maceratese scarmigliato e, allo stesso tempo, sopìto dalle feste natalizie. Dopo la kermesse di pranzi e rituali al Terminal ci sono i The Clothes che suonano tra cappelletti in brodo di carne e qualche fetta di fristingo. C’è odore di nebbia e umidità nel cortile del locale, tanto che ci si appoggia ad un bicchiere per non scivolare lungo la discesa di via Fonte Maggiore. La serata parte tardi, dopo le 23, quando il locale comincia a riempirsi di gente, chi si ritrova sotto le vacanze, chi  evita gli sguardi di persone rincontrate dopo secoli. A Natale si finisce col fuggire dal cibo e allora l’alternativa può essere quella di ballare un po’ di rock’n’roll, meglio se caramellato di sfumature vintage. Il concerto dura quasi un’ora e mezza. E’ un concentrato di instancabile su e giù di pop scozzese dall’attitudine frenetica del punk garage. Giovanissimi e in perfetta sintonia sul palco con così tanti spunti d’ispirazione che li portano ad essere un prisma luminoso e vivace di influenze. Dal quel garage rock spesso considerato come genere  di derivazione, seppur in realtà linfa per i generi successi nati dopo gli anni Sessanta: si pensi al revival dei Fleshtones, dei Barracudas. Negli anni Ottanta troviamo gruppi come i Fuzztones, i Lyres, o i Miracle Workers. Un genere nato e vissuto nei sotterranei, altero, caratterizzato dal materia grezza e sporca, assieme ad una voce quasi sempre rauca e arrabbiata. Feroci e ribelli: questo era il mood. Ma anche sostanza, ideale e attitudine. Do it yourself , si diceva. Un motto come un ideale, spesso e volentieri associato al punk. L’idea è quella di svincolarsi dalle dinamiche della società capitalista, e dunque di conseguenza aggirare i poteri  delle etichette discografiche. Le major come i poteri politici, economici, quelli che succhiano senza mai ridare ossigeno. Fatelo da soli, dunque, il che vuol dire autogestione, riprendersi le informazioni eclissate dalla bolla felice e ipocrita che la società ha costruito attorno alle persone. Cercare e scoprire musica da soli. Da questa etica DIY irrompe sui palchi anche il garage punk che prende forma dal punk rock ed il garage punk. Un genere che si è ‘fatto’ da solo, o meglio dalla sperimentazione di chi lo suonava negli scantinati. Chitarra, urla come carta vetrata per farsi ascoltare e quattro pareti di un garage possono bastare per creare musica. Periferia e cantine dismesse. Nessun palco lustrato per l’occasione. Nei bassifondi la creatività si permea di lucido sognare e strimpella melodie amatoriali. Il folk rock americano nella metà degli anni Sessanta fa la linguaccia alle sonorità inglesi in auge ed il garage rock fa parte di queste voci dissonanti. Voci che in Louie Louie dei Kingsmen, considerata il primo brano garage della storia, non sono ancora ruvide, mentre con i Sonics acquistano ritmi blues selvaggi e veloci.
La performance di Massimo e Laura è  impreziosita dalla sbilenca ma tenace armonica di Filippo, detto Pippo, che accompagna ogni pezzo dei Clothes improvvisandosi per una sera. Testimonianza estemporanea che questo genere va suonato così, come viene, per divertirsi, per “sentirsi liberi e contenti” come ripete più volte Pippo lasciando ciondolare la testa qua e là.
Massimo,  cantante e chitarrista, interagisce spesso col pubblico e non adotta il cantato sgraziato di Gordon Gono dei Violent Femmes ma l’approccio della sua chitarra essenziale e un po’ scorbutico ricorda il gruppo statunitense. Questo appartiene più a quel folk che non attinge alla tradizione quanto più dalla profanazione dello stesso: sgangherati nelle movenze, animali tambureggiati e saltellanti su sfighe e paranoie adolescenziali. Tutto fatto di pancia, suonato con la sincerità di chi ‘conosce il bello’ stile e gli da un calcio.
Quello dei The Clothes è, di base, un pop spensierato, un po’ malinconico sulle punte di qualche riff: qui vibra tutta la loro devozione alla new wave e alle sue linee melodiche dolenti. Nei testi si scomodano sogni di ragazzino, desideri di fuga mai realizzati. Hanno passione da coltivare  questi ragazzi. Billy Childish direbbe: “Essere un amatore significa fare qualcosa per la passione di farlo. Certo, io non sono un amatore, ma è un modo per avere una leggerezza nel tocco nel descrivere te stesso. Gli amatori sono quelli che producono il vero progresso, le svolte, sono degli eroi, ed è molto meglio essere un eroe che un professionista!”.  Childish è un musicista, autore e poeta inglese che ha fatto parte di numerosi gruppi come i Thee Mighty Caesars, i Thee gli Headcoats, i Delmonas, i Milkshakes, i Pop Rivets, i Buff Medways e molti altri. Un signore del garage tra i più sottovalutati della Gran Bretagna che ha pubblicato più di cinquanta dischi.
Arriva anche la canzone natalizia The night before Christmas che regala un’atmosfera leggera e spensierata. Del resto, non gli si addice il prendersi troppo sul serio. Da Ty Segall, agli Thee oh sees, i Vaccines, i Teen Idols: queste sono i gruppi che maggiormente hanno influenzato il gruppo maceratese/monteluponese. L’english pop suonato e ammaccato come fosse garage, divertitito dalle sonorità jingle-jangle provenienti dal jangle pop nato all’inizio degli anni Sessanta per genio di band come Beatles, Byrds e Hollies.
Chitarre tintinnanti per raccontare storie, amori e  nostalgie  in una serata per fairy lights dress!

(foto da www.angolodifrank.wordpress.com)