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giuseppe verdi, La forza del destino, Lauro Rossi, Macerata, Rigoletto, Sferisterio, teatro, Traviata, Trovatore

di Lucia Cattani
Due secoli sono trascorsi dalla nascita di un uomo che ha saputo leggere l’Italia da prima della sua unità, che è stato capace di far ergere un canto da un popolo soggiogato allo straniero dominatore, che è riuscito a far sognare e palpitare gli animi che riempivano i teatri per assistere alle sue opere. Giuseppe Verdi, simbolo concreto di speranza di una nuova Italia, di una nuova resurrezione di ideali soffocati da secoli di oppressione, ha incarnato il suo fervore nel più eloquente mezzo che possa esistere e parlare alle genti scoraggiate, arrese, del suo tempo: la voce dell’opera lirica. Il suo nome è diventato grido di coraggio, negli anni del risorgimento, emblema di quello che l’Italia sarebbe dovuta diventare: una vera nazione dominata non dagli oppressori ma dagli ideali di libertà e virtù. Egli stesso si è rivelato agli italiani come colui che riesce a risollevarsi da un dolore straziante con le proprie forze: dopo aver perso nel giro di poco tempo moglie e figli, fu capace di dare vita a quel capolavoro universale che è il Nabucco. Soffocando il suo personale dramma è riuscito a infondere quella fiducia nella rinascita ad un popolo disorientato, frammentato e innalzarlo nelle note immortali del Va’ pensiero, facendolo risuonare per le strade, passare di bocca in bocca, di sospiro in sospiro.
Ricordo la prima volta che vidi quest’opera, le prime note dell’Ouverture che risuonavano nell’oscurità brulicante e concitata del teatro, i respiri trattenuti dagli spettatori per paura di perdere una nota o di uscire dall’atmosfera indicibile creata dal capolavoro verdiano. Ricordo come sono uscita da quelle ore di bellezza, con le lacrime agli occhi e il cuore appagato, ricolmo di una serenità viva, di voglia di fare, di ottimismo. Comprendo il motivo perché Verdi sia considerato fautore della nostra unità nazionale alla stregua dei grandi condottieri, collocato di fianco a Cavour, Mazzini o Garibaldi. Le voci degli strumenti, i canti intonati dai cori, l’oppressione, le passioni: tutto ciò eravamo noi italiani. Giuseppe Verdi è stato in grado di vivificare ciò che ci scorre nelle vene, ciò che dalla fine del rinascimento era stato messo a tacere dall’oppressione, dalla sfiducia nel nostro potenziale, dalle dinamiche stranianti di una civiltà europea che si fonda sempre più su guerre di egemonia e imperialismo e sempre meno sulla giustizia sociale, sulla ragione, sulla comprensione e sul rispetto. In un clima del genere Verdi ha avuto il coraggio di portare in scena La Traviata, storia dell’altruismo, dell’immensa capacità di voler bene di una cortigiana, ipotesi assolutamente inconcepibile per una nazione (ancora non unificata) che soggiaceva ai dogmi incontestabili di una Chiesa fortemente chiusa ed estranea al mutamento sociale in atto già nel resto dell’Europa. Per Alexandre Dumas, autore de La Signora delle Camelie da cui il libretto della Traviata è tratto, fu certamente più facile sopportare il peso di una così impopolare morale, nella Parigi bohémienne, più estranea dall’influenza vaticana. L’ultima opera della Trilogia Popolare, dimostra tutta la grande sensibilità del compositore rispetto ai ceti più emarginati, dove la morte è sempre in agguato, il destino è crudele ma gli animi sono accesi dalla voglia di mettersi in gioco, dalla tensione al sacrificio per gli altri. Violetta è l’emblema di colei che si sacrifica in silenzio, colei che, caduta nell’errore, non cerca né autocompatimento né discolpa. Folgorata dall’amore puro per qualcuno che le vuole bene, in un mondo dove tutti l’hanno già condannata, non esita ad immolarsi per non intaccare la buona reputazione di Alfredo: un gesto che, nella mia prima giovinezza, mi colpì così tanto da sentirla vicina come nessun’altro personaggio teatrale: nella corruzione, nella lascivia, nelle dinamiche di interesse, tra maschere e vizi, piaceri e denaro un gesto immenso e puro poteva librarsi sopra ogni debolezza della carne, al di là di condizioni sociali. Verdi guarda oltre il destino, oltre le diversità, oltre il “peccato”: guarda l’uomo nella sua fragilità, sa cogliere il suo dolore che non cessa di perseguitarlo. La commozione che ho provato anni fa davanti all’interpretazione di Mariella Devia è senza dubbio incancellabile, e l’incanto ritorna, anche se con meno intensità, ad ogni nuova esecuzione, fino allo struggente lamento dell’aria “Addio del passato..” .
Lo scorso venerdì mi sono quindi diretta entusiasta ad assistere, al teatro Lauro Rossi di Macerata, l’omaggio Per i duecento di Verdi, con l’aspettativa di un evento che fosse sulla scia delle grandi rappresentazioni allo Sferisterio della stagione lirica estiva (possiamo ben ricordare La traviata degli specchi, o addirittura la stagione di quest’anno che ha visto in scena Il Trovatore e il Nabucco). L’effetto che la serata ha suscitato in me è stato leggermente diverso da quello che avevo sperato. Organizzato dal Rotary Club Matteo Ricci di Macerata, probabilmente lo spettacolo è partito con le migliori intenzioni, cioè quelle di mettere in scena qualcosa di fruibile anche da coloro che sono estranei o non appassionati di musica classica. Si è trattato di un’esibizione atipica e poco equilibrata nella sua organizzazione, basata sull’esecuzione di Suite, Sinfonie, Ouvertures, Arie tra le più celebri e scontate del repertorio verdiano, partendo dall’Ouverture del Nabucco, eseguito dalla Salvadei Brass, un gruppo maceratese formato da ottoni e percussioni. Ai brani della formazione si alternavano arie eseguite dalla soprano Lilla Lee accompagnata al pianoforte da Simone Di Crescenzo (che si è cimentato anche nell’esecuzione non proprio esaltante di un Valzer in Fa Maggiore), e gli interventi esplicativi sui trascorsi biografici di Verdi tenuti da Francesco Micheli.
Il teatro era gremito, ma l’atmosfera non era quella che si respira davanti ad un’esibizione di musica classica. Dal mio posto, dalla mia piccola nicchia in alto da cui potevo vedere, però, tutto il pubblico, si potevano notare decine di cellulari accesi, usati senza rispetto dai rispettivi, incuranti proprietari (nel bel mezzo della serata uno di questi ha addirittura squillato una ventina di secondi prima che il proprietario, senza dubbio molto preso dallo spettacolo, si decidesse a uscire dalla sala per rispondere alla chiamata) che sembravano essere lì più per una questione di forma che per curiosità o passione per l’opera verdiana. I bisbiglii continui e le parecchie mani immobili al momento degli applausi sembrerebbero confermare quest’ipotesi, ma ciò credo non basti. Una certa atmosfera rilassata sembrava pervenire anche dal palco stesso: uno dei membri della Salvadei Brass aveva ben visibile, vicino ai piedi, il volantino illustrativo della serata, quello che all’ingresso era stato consegnato a tutti, speriamo non per consultare la scaletta. Inoltre, focalizzandosi sulla formazione, i pezzi scelti erano probabilmente inadatti ad essere eseguiti da una banda di ottoni e percussioni. Non mi sentivo a teatro, ma piuttosto ad una processione domenicale (senza niente togliere alle bande che vi prendono parte, alcune delle quali validissime). Gli strumenti inoltre sembravano a tratti discordi, tutt’altro che rare erano le stonature, gli errori udibilissimi anche da un orecchio poco avvezzo a questo genere di musica. L’espressività dei suoni era pressoché inesistente, consistendo per lo più in crescendi o diminuendi poco curati, da volumi eccessivi talvolta, e soprattutto dalla mancanza di dinamicità (non c’era a condurre la banda neanche un direttore d’orchestra che almeno la orientasse verso il tempo giusto da tenere).
Ad eseguire le più famose arie del Trovatore, dell’ Aida e de La forza del destino erano la soprano Lilla Lee, dalla voce apprezzabile, per lo più vestita in modo a mio avviso irrispettoso per un contesto di musica classica, accompagnata dal pianista Simone Di Crescenzo, la cui esecuzione non è sempre stata impeccabile.
Quello che però ha contraddistinto la “serata” rispetto ai concerti a cui si è abituati è stato lo spettacolo nello spettacolo offerto da Francesco Micheli, direttore del Macerata Opera Festival, che si è dilungato tra un brano e l’altro nell’illuminare il pubblico (formato per lo più da ultracinquantenni) con motti di spirito e una versione scherzosa dei trascorsi di Verdi, a partire dalla collaborazione con La Scala di Milano, dipinta come la scena “di uno studente neolaureato che porta un curriculum inconsistente”, per continuare con la pittoresca definizione della Trilogia Popolare verdiana come “tripletta goleador”, per giungere fino al paragone tra Violetta e una escort. Micheli ha utilizzato scelte lessicali che sembravano tratte da una lezione per studenti. Il momento culminante può però essere senza dubbio individuato in un coro di “Tanti auguri Peppino”, seguito da un pubblico fin troppo entusiasta.
Non sembrava di trovarsi a teatro, ma in piazza. Dalla scelta di alternare una banda di ottoni ad una soprano semivestita, fino all’idea di presentare Verdi come un argomento da salotto ai limiti del gossip, più che di fronte a un omaggio al compositore mi è sembrato di trovarmi nel mezzo di un’Italia in cui il senso della sua musica è stato travisato. Una nazione insomma di blandi ideali, di parole senza significato, in cui vige l’idea di mettersi in mostra senza pudore e di offrire uno spettacolo al solo scopo di strappare applausi, complice una certa idea di facile mondanità. Mi chiedo se sia giusto travisare in questo modo il messaggio di un uomo che ha significato tanto per i nostri antenati, per il nostro sentirci italiani. Ha senso la musica quando diviene un rincorrersi di note, suonate per un pubblico che cerca la battuta di spirito, la facile risata, l’intrattenimento? Ascoltare quelle esecuzioni con allegria forzata e costruita mi ha lasciato un senso di amarezza.
Un sospiro di sollievo è giunto quando mi sono allontanata, a due brani dalla fine; la delusione si è spenta poi nell’aria fredda di novembre, nel profumo dei vicoli illuminati e silenziosi di Macerata, nel suono del vento nelle strade deserte, nella musica allegra di un pub semideserto.
(immagine:Jean Béraud, Dopo il misfatto, Londra, National Gallery)
Condivido in pieno il tuo pensiero e mi complimento per l’articolo che hai scritto