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di Andrea Ferroni
In questa rubrica mensile mi rivelo come consulente filosofico, come colui, cioè, che ricerca insieme a un’altra persona se è possibile reperire un senso nella nostra esistenza quotidiana (che passa anche attraverso le domande che ci facciamo e i problemi che viviamo). Vorrei tentare, quindi, di considerare le domande che si generano dalla lettura dei testi o da incontri e dialoghi fortuiti affinché siano uno spunto per una discussione, come delle questioni aperte che interrogano non solo chi le ha poste ma anche me direttamente e chiunque le legga. E nel proporre una risposta non intendo certo dare sentenze definitive ma offrire soltanto il mio contributo ad una riflessione comune.
La domanda di ottobre:
Incontro Lara. Saluti, convenevoli e poi, mentre si parla di sogni da realizzare e del fatto che non esiste più nemmeno il sogno americano, mi fa una domanda:
E’ PROPRIO LONTANISSIMA LA FELICITÀ INTERNA LORDA DEL BHUTAN?
La (non) risposta:
Per tentare una risposta mi è difficile trovare parole migliori di quelle pronunciate da Robert Kennedy nel suo famoso discorso del ’68 (volendo, lo si trova su Youtube: Robert Kennedy, 18 marzo 1968, Università del Kansas). In ogni caso, come consulente filosofico, sarei portato a spostare il discorso più su un piano personale proponendo una riflessione sul proprio modo di vivere il tempo. Insieme a Lara, che ha posto la domanda, parto da un confronto con l’idea heideggeriana di tempo autentico.
Heidegger, filosofo tedesco del secolo scorso, sostiene che per essere autentici non si può non considerare la nostra morte. Sembra paradossale ma cerco di spiegarlo come l’ho capito. Pensare alla propria morte è il rischio più grande, la minaccia più dura. La morte, insieme al dolore, è una violenza per gli esseri umani. Ma morte e dolore sono la nostra condizione di fatto. Se non la si accetta tanto vale non accettare la vita fin dall’inizio. Il dolore e la morte non si possono ignorare né fingere di ignorare, altrimenti essi ci sorprenderanno facendo comunque crollare tutto con l’aggravante crudele dell’inatteso. Allora morte e dolore vanno attesi. Attesi e guardati negli occhi. E occorre saper dire che, nonostante la loro presenza, posso evolvermi e realizzare tutte le mie potenzialità (ho scritto “nonostante” ma forse dovrei dire proprio per la loro presenza, che funge da limite, come gli argini di un fiume che fiume non sarebbe senza gli argini).
Cara Lara, la mia mente vaga fino a proporti poi un parallelismo tra felicità e libertà intesa sia come essere gettati nella possibilità (di nuovo Heidegger, che osserva il dato della nostra datità, cioè del non aver potuto scegliere la nostra esistenza in questo mondo), sia come problema da affrontare (l’assurdo di Sartre per cui l’esistenza è nullificata dalla molteplicità delle scelte e dall’impossibilità di discriminarne la fondatezza e validità; come dire: se sono troppo libero di andare dove voglio, finisco con il perdermi).
Va be’, insomma, inutile girarci attorno, la domanda ora è diventata: che cos’è la felicità?
Intanto dico che rischia molto chi ancora cerca la felicità in qualcosa in cui essa dovrebbe consistere: non so… Il lavoro, l’amore, i figli, i soldi, il successo… Secondo me, cercare la felicità in qualcosa significa affannarsi a correrle dietro, illudersi, deludersi e non trovarla mai. Perché la felicità non può essere un “qualcosa”. Le cose positive e le cose negative arrivano spesso senza che noi possiamo farci nulla. Allora, se facciamo dipendere la felicità da quello che capita, è ovvio che prima o poi diremo (sempre con un po’ di ipocrita speranza di sbagliarci) che la felicità non esiste.
Lara, vuoi essere felice? Intanto pensa. Esamina la tua vita, rifletti. E se puoi discutine con i tuoi amici. Parti dalle grandi domande o da quelle piccole, ma abituati a fare domande. Domandare sempre. A te stesso e agli altri. Ma, se puoi, scegli domande lecite, cioè quelle di cui non sai la risposta, altrimenti rischi di fare retorica o di bearti per quello che sai già. Perché solo se non sai la risposta il cervello ti si mette in moto. E pure il corpo si mette in moto, per cercarla anche con e nei tuoi amici: le idee volano ed evolvono meglio in compagnia. Ah beh… Lo dico subito: a prescindere da cosa sia la felicità, per me non si può essere felici da soli.
La felicità allora dov’è? Si può dire che sta sopra. È qualcosa che ci guarda dall’alto. Anzi: siamo noi quando riusciamo a guardarci dall’alto. Ma non occorre volare: per guardarci dall’alto basta capire. Quando comprendiamo quello che ci accade, tutto cambia luce.
Facciamo così: butto là una definizione e poi vediamo che succede. La felicità è la presenza quotidiana del significato della nostra vita nella nostra vita. E la presenza come la realizzo? Beh… Non solo aspettandola ma costruendola, trovando i miei limiti per espandere la mia potenza (la potenza che ognuno di noi ha… chiamala energia, spirito, essenza o più semplicemente potenzialità). Dunque è come dire che l’essenziale è avere la mia direzione, trovata, inventata, voluta e di volta in volta calibrata. La felicità è essere in una direzione pensata di senso. La felicità è costruire un nostro cammino di relazioni, senza nessuna garanzia se non quella di pensare e volere. Stando attenti a non cadere, però, nel pericoloso mito dell’uomo contemporaneo secondo cui volere è potere.
(in foto, un monastero del Bhutan, piccolissimo stato montuoso asiatico che già da 4 anni adotta come indicatore per calcolare il benessere della popolazione, anziché il PIL, il FIL. I criteri presi in considerazione sono la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali. Il Bhutan è uno stato poverissimo, ma secondo questi parametri è uno dei più felici al mondo)
Da filosofa “convertita alla biologia” direi che la felicità o meglio il segreto della felicità è aderire pienamente al proprio essere: per definire l’essere possiamo confrontarlo con la nostra parte affettiva costruita sulle nostre personali mancanze cioè con il personaggio, che mette in atto strategie di sopravvivenza rispetto alla percezione psichica di essere mancanti di qualcosa. In questo senso si pone sempre in richiesta rispetto all’altro da sé perché crede che ciò di cui manca possa o debba essere colmato da qualcosa che è fuori da sé stesso.
Ma essendo appunto esseri biologici e quindi inseriti nel processo evolutivo nasciamo con un “compito” rispetto alla necessità naturale dell’evoluzione biologica e ogni volta che diamo una risposta non funzionale ai termini evolutivi, blocchiamo di fatto il processo; ma allo stesso tempo abbiamo bisogno di sopravvivere il più a lungo possibile e tutto il nostro organismo – a partire dal cervello biologico (che non è la non psiche) ma la centrale che dà il comando, l’input e agisce al fine di tale sopravvivenza; il risultato è che si pongono in atto fenomeni prodotti da modifiche di alcune funzioni biologiche chimiche e meccaniche sia a livello organico che comportamentale finalizzate alla sopravvivenza dell’individuo stesso.
La morte (che spaventa l’individuo e la specie in quanto biologicamente programmati a permanere) è la soluzione biologica all’inadeguatezza evolutiva (se non sei funzionale al programma evolutivo vieni eliminato). Tutti i conflitti biologici vanno quindi risolti in tempo utile e questo tempo utile è quantificato rispetto alla durata necessaria alle funzioni del concepimento, gestazione e nascita di ogni specie.
Tornando alla felicità la comprensione del nostro essere e del nostro personaggio (intesi anche rispettivamente come realtà e verità) ci può fornire uno strumento per assecondare la nostra funzionalità all’interno del tutto, dell’essere in sé, direbbe il filosofo.
Ogni cosa che è, appunto è in quanto essere, o in quanto parte dell’essere o in quanto forma dell’essere, a seconda delle diverse teorie filosofiche: quel che conta è arrivare a capire chi siamo e cosa stiamo a fare e – cosa non del tutto secondaria – come fare per arrivare a tutto ciò.
Mettiamola così, sul pratico: solo se mettiamo in atto le nostre capacità (potenzialità le chiamerebbe Andrea) la nostra vita funziona, cioè solo così siamo felici.
La vita animale e umana è definita principalmente dalle emozioni che sono sensazioni biologicamente prodotte dagli ormoni e sono funzionali, ancora una volta alla sopravvivenza, individuale. Le emozioni ci conducono attraverso l’esistenza, sono il navigatore, così che dove troviamo emozione piacevole andiamo e dove troviamo emozione spiacevole rifuggiamo. Questo in un ambito ideale. Perché accade che a causa delle mancanze, diremmo, risentite (come a dire percepite ma a livello profondo, cioè a livello” animale”) mettiamo in atto strategie per colmarle, a un livello che è quello affettivo e non emozionale.
Ecco che distinguere la linea degli affetti e la linea delle emozione ci dà già una visione della differenza tra essere e personaggio, tra chi sono nella realtà e chi ho costruito per colmare le mancanze (la così detta personalità o carattere9.
E’ chiaro che l’individuo al momento della nascita è un tutt’uno con l’essere tanto che è risaputo che il bambino non ha la percezione della differenza tra se e la madre, tra se e il resto del mondo.
Attraverso stadi di sviluppo acquisisce la consapevolezza di sé e sviluppa le conseguenti capacità cognitive e costruisce la propria personalità il proprio carattere, attraverso un processo di individualizzazione dal tutto. Tale individualizzazione è fondamentale al fine della sopravvivenza, come dire che non procedendo nell’individualizzazione moriremmo. Là dove l’acquisizione non viene realizzata, si crea una mancanza che viene colmata con una potremmo dire “stampella”, qualcosa che tiene su il tutto, mutuata da modelli che attingono alla cultura, alle consuetudini e ai riferimenti del clan familiare, ecc.
Senza approfondire la questione (sul come e il perché accada che un’acquisizione venga realizzata o meno che pure lo richiederebbe ma per ragioni di sintesi momentaneamente non riportiamo) possiamo trarre che la personalità di ciascuno è frutto delle “stampelle” utilizzate per colmare i buchi, e quindi non qualcosa che ha che fare con la realtà di noi stessi, ma con quello che abbiamo definito il nostro personaggio. Può accadere quindi che il personaggio sia molto distante dal nostro essere; e siccome la biologia “spinge” cioè si impone a causa della forte accezione della necessità biologica evolutiva, ci troviamo spesso a percepire un forte disagio che, in ultima istanza, possiamo chiamare infelicità.
E’ molto importante quindi capire la differenza che passa tra affetti e emozioni per riconoscere dove siamo nel personaggio e dove siamo nella realtà di noi stessi, nell’essere.
Vero è che quando siamo nell’essere la nostra vita fluisce, le nostre emozioni sono vive e ci conducono attraverso l’esistenza, le cose si realizzano, non ci ammaliamo: in una parola siamo felici.
Per questo la felicità è individuale è unica, non ha a che fare con gli altri ma solo con noi stessi, (porsi in richiesta con gli altri fa parte del personaggio, della vita affettiva e non emozionale), non ha a che vedere con la volontà (la volontà di potenza direbbe Andrea) ma con il lasciarsi andare a sé stessi, al proprio essere.
Il tutto dentro le salde leggi dell’etica il cui fondamento è:
non ferire mai il cuore di nessuno. A partire dal tuo. Ferire il cuore vuol dire tradire l’essere, in definitiva.
Il personaggio diversamente si sentirà sempre ferito, ogni qual volta la sua, mi viene da dire misera, richiesta non viene esaudita e ad esempio il concetto di volontà è compreso negli assunti della richiesta e della mancanza.
“Io voglio”, “io vorrei”: non è altro che una richiesta bella e buona. Diversa cosa è il bisogno che è qualcosa a cui si risponde attraverso il proprio essere, attraverso la propria capacità, autonomamente, senza volontà potremo dire: affermare di voler essere ciò che si è, infatti, non significa nulla, è mera tautologia.
Noi siamo le nostre capacità che sono quelle e non altre, come i nostri bisogni.
E se guardiamo bene nella profondità della questione, troveremo che come le nostre richieste sono sempre le stesse, così sono i nostri bisogni reali. Questo perché siamo individui funzionali ad una parte evolutiva e a quello serviamo e all’interno di tale funzionalità abbiamo milioni di opportunità che aspettano solo di essere colte per mettere in atto ciò che siamo realmente.
Il nostro personaggio che crede di essere reale ovviamente, non vuole morire, tanto che non ponendo le richieste, non mettendo in atto le strategie, non attuando il sabotaggio dell’essere, cioè di noi stessi, si sente spiazzato e perso; si abbarbica agli affetti e combatte l’emozione, scambiando ad esempio il fare ciò che ci si aspetta da lui per amore.
E molto spesso preferiamo morire piuttosto che essere felici; morire emozionalmente (che è già la morte di fatto: emozioni = vita) e a volte anche fisicamente, tanto è forte la paura di non essere in ultima istanza accettati.
La felicità è semplice. E ogni volta che non siamo in contatto con la realtà ma siamo nell’ottica della verità (che come è risaputo è diversa per ciascuno) andiamo nella direzione opposta. Quando è vero che per essere dobbiamo essere, ad esempio, accettati, la realtà sparisce dalla nostra vista; la realtà è che siamo e non abbiamo bisogno che qualcun altro o qualcos’altro ratifichi questo che è un fatto, reale, biologico, che dà di per sé dignità al nostro essere qui ed ora. E tutte le azioni che compiamo in questa direzione non potranno mai essere sbagliate o improprie, bensì adeguate, funzionali, ricche di emozione, felici. E per adesso la finirei qui.
Grazie per il contributo, Margherita :-)
(Andrea)