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di Lucia Cattani
Che nome darti,
quando nell’estasi del nostro incantato
chiaroscuro, contemplo la vespertina
stella dei tuoi bellissimi occhi,
come li vedessi per la prima volta,
Quegli occhi di cui ogni raggio
è una vena d’amore che nel mare
dell’anima mia si versa;
che nome devo darti?
Che nome devo darti,
quando lanci a me lo sguardo,
questa timida palombella,
di cui ogni penna è un ramoscello d’ulivo
di serenità. Accarezzarle è cosi dolce,
perché della seta più morbide,
e più soffici del cuscino di culla
che nome devo darti?
Che nome devo darti,
quando risuona la tua voce di un timbro
che a sentirla gli alberi spogli
pur nel inverso, s’adornano
di versi foglie, credendo già venuta
la primavera redentrice tanto attesa,
poiché canta l’usignolo:
che nome devo darti?
Che nome devo darti
quando sulle mie labbra posi
il rubino acceso delle tue
e nel focoso bacio si fondono
le anime nostre, come all’aurora
notte e giorno si fondono
ed il mondo scompare, il tempo svanisce
e l’eternità effonde su di me
tutte le misteriose beatitudini:
che nome devo darti?
Che nome devo darti,
dolce madre della mia felicità,
figlia fatata del mio desiderio
che si alza nel cielo.
Tu sei la splendida realtà che supera
le mie più audaci speranze;
tu, mio solo bene,
ma che vale più di un mondo:
oh bella giovane, dolce sposa mia, che nome devo darti?
(János Sándor Petőfi)
Questi dolci versi aprono la seconda serata concertistica organizzata dall’Appassionata. Il teatro Lauro Rossi è gremito, data la potenza del richiamo dell’evento. Non si tratta solamente di un’imperdibile, rara occasione di assistere all’esibizione di una formazione d’archi che non ha bisogno di presentazioni, ovvero il Quartetto d’Archi di Torino: il concerto è dedicato al ricordo di un’importante personalità che l’Università di Macerata ha avuto la fortuna di ospitare per diversi anni: János Sándor Petőfi, omonimo del poeta Petőfi Sándor a cui appartiene la lirica iniziale, che il professore apprezzava moltissimo sia per motivi di origine che per lo spirito rivoluzionario che mostrò nel corso della sua vita, nell’Ungheria del 1848, sia per i temi da cui la poetica del letterato scaturiva: szabadság e szerelem, libertà e amore.
Quale migliore occasione per rendere omaggio ad una così eminente personalità dotata di una simile sensibilità che un concerto dal repertorio che sembra allinearsi perfettamente con le tematiche così care a Sándor Petőfi? Dopo la declamazione di Che nome darti giungono infatti le note del Quartetto in Sol Maggiore per Archi D.887 op.161 di Franz Schubert, il più lungo in assoluto dei Quindici Quartetti per archi e paragonabile per la potenza e lo splendore all’Op. 131 di Beethoven, considerato l’apice della musica quartettistica del tempo. Ci troviamo di fronte al trionfo del Romanticismo, anticipato dalla lirica ed ora concretizzato nell’incanto della melodia di straordinaria bellezza e complessità che sembra un po’ allontanarsi dal profilo consueto di Schubert. L’opera verte verso una nuova libertà, un superamento degli schemi rigidi del passato, come a voler annunciare un nuovo brillante e passionale inizio di una nuova musica che come quella di Beethoven riesce ad essere drammaticamente introversa, liricamente trasfigurata e sempre attraente, dai toni profetici e nella continua indagine sulla natura del linguaggio compositivo. L’Allegro iniziale si forma partendo da principi di equivalenza degli opposti: ogni strumento segue il proprio percorso lineare di digressioni e varianti. Il risultato è vorticoso e imprevedibile, quiete e fermento si susseguono tra brevi oscuramenti trasfigurati in episodi sospirati in cui la natura sembra rivelare le sue dolcezze recondite e le sue infinite e insperate rinascite. Tutto sembra crescere e maturare, gli orizzonti si chiarificano tra pause meditative e inquietudini improvvise. La drammaticità è talvolta sfiorata ed elusa: i due violini, la viola, il violoncello sembrano essere un solo elemento, impegnato in un unico, coinvolgente e virtuoso respiro. Il suono risulta essere perfettamente compatto e corale, come fosse il risultato di un comune respiro. Ogni sfumatura di suono è coordinata meravigliosamente, come raramente capita di osservare in una formazione impegnata in una così complessa opera. D’altronde i Maestri Vittorio Marchese, Umberto Fantini, Andrea Repetto e Manuel Zigante si sono cimentati in imprese di ben maggiore difficoltà, come la rarissima esecuzione del Secondo Quartetto di Morton Feldman, il quartetto più lungo della storia, della durata di sei ore: la fama della formazione è accresciuta di anno in anno, dal momento in cui fu fondata, nel 1988, ottenendo sempre maggiori riconoscimenti dalla critica e da concorsi internazionali. La notorietà è inoltre stata sancita presso il pubblico grazie alla realizzazione della colonna sonora, spesso riproposta nei concerti in forma di suite, composta da Ezio Bosso nel 2002 del film Io Non Ho Paura, di Gabriele Salvatores. Tornando al Quartetto in sol maggiore, gli esecutori riescono a rapire il pubblico nonostante la minore popolarità del brano schubertiano attraverso un fraseggio perfettamente dinamico ed elastico, grazie alla coesione della potenza espressiva che conferiva alla sinfonia quasi una valenza orchestrale, senza mai mostrare titubanze. Nell’Andante poco mosso il violoncello dipinge uno scenario mutato e malinconico, in cui convivono principi opposti, tra staticità e dinamicità, coesi da una polifonia in cui spiccano le note dello strumento: due sezioni con caratteri distinti si contrappongono. L’effetto è quello di un ricordo doloroso e ancora persistente, un tormento che si fa più vivido fino a divenire ossessione e passione dalle tinte fosche, un dissidio dialogato tra le armonie di violoncello e violino. Il contrasto diventa ancora più vivido nello Scherzo, così simile alla composizione beethoveniana, mentre il Trio in sol maggiore introduce una melodia fluida ed espressiva che parte dal violoncello, dal tono simile ad una danza popolare. Il celebre Allegro finale vede emergere tutto il virtuosismo dei musicisti: ciò che emerge dall’esecuzione è una vera e propria esplosione di energia che tende all’ignoto, ad una libertà vitale e perpetua. È la speranza nel futuro che sta per giungere a prevalere sull’inquietudine esistenziale, infine, nonostante il continuo oscillamento su chiaroscuri minori, lasciandoci nella luminosità di un vibrante vitalismo.
Dopo i quaranta minuti del Quartetto in Sol Maggiore si apre la seconda parte del concerto, che continua ad allinearsi con il tema di libertà dagli schematismi attraverso i 12 Mikroludien op.13, Hommage à Mihàly Andràs di György Kurtág, classe 1926, musicista ungherese che il Quartetto d’Archi di Torino ha avuto modo di frequentare personalmente. Il duro regime estetico imposto dalla dittatura comunista lo costrinse alla fuga in Francia, dato che le sonorità compositive di Kurtàg si avvicinano moltissimo ai lavori di Béla Bartók e Arnold Schönberg. Questi dodici Microludi sono dominati da un continuo gioco di rimandi e allusioni che si dispiega sia all’interno dei brani, sia fra un brano e l’altro. Si tratta di composizioni estremamente brevi, tra cui poche superano il minuto, concatenate tra loro come “diapositive diverse dal carattere giocoso, ludico, e dalla poetica particolare”, come spiega il Maestro Zigante. Infatti gli strumenti sembrano inizialmente vivere di vita propria, distinti dagli altri, impegnati e chiusi in quattro diversi temi: vige l’incomunicabilità che poi si districa tra improvvisi impeti e silenzi, in una sorta di espressionismo privo di redini e capace di librarsi nell’impossibile. I registri cambiano di continuo: si giunge talvolta a semplicità armoniche, silenzi meditativi in cui elementi estranei si insinuano. Subentrano situazioni di immobilità e disagio che sembra prefigurare un’apoteosi, un risveglio mistico che però non giunge. Dialoghi inquieti tra gli archi sono alternati da improvvisi riverberi di potenza, fino a curiose frasi di strumenti pizzicati in cui i suoni escono striduli. Sembra di essere sospesi nel nulla, nella cecità di un nuovo incerto e malefico secolo che avanza, in cui ogni armonia è distrutta. Eppure si evince una sorta di speranza, una visione di libertà tra le stranezze di un mondo incomprensibile, da un linguaggio difficile da decifrare. La consapevolezza di essere parte di un universo multiforme è la vera libertà: nonostante i travagli, l’intera opera assume una connotazione positiva, la vita è percepita come un continuo “gioco” mai uguale, che non finisce mai di sbalordire coloro che ne prendono parte.
La libertà si è rivelata attraverso le suggestioni dodecafoniche di Kurtàg e per mezzo delle innovazioni Romantiche di Schubert: a coronare la serata giunge il sentimento d’amore espresso nel modo più sublime e struggente che si potesse scegliere. I versi appassionati di Petőfi Sándor sembrano risuonare nella perfezione armonica di Leòs Janàček, che torna nuovamente a rapire gli spettatori a pochi giorni di distanza con il Quartetto n.2 per Archi, o più comunemente conosciuto come Lettere Intime. Si tratta dell’ultima creazione significativa del compositore, che morì pochi mesi dopo. Ad ispirare Janàček era stato il dichiarato amore per Kamila Stösslovà, una giovane donna sposata con la quale aveva intessuto un fervido rapporto epistolare. Kamila era diventata un’ossessione morbosa per il compositore, una musa ispiratrice che racchiudeva in sé quello struggimento per un amore impossibile e incompiuto. Il Quartetto, dominato da toni appassionati ed emozioni palpabili, rappresenta la confessione immortale declamata per mezzo della musica, unico mezzo per rendere concreti e visibili i tormenti del cuore. La viola, lontana e sconsolata sospira la sua malinconia, seguita dagli altri archi in un’instabile e lancinante frase. Nell’Adagio sono i toni gravi ad essere protagonisti: Janàček stesso scrisse a Kamila, dopo aver composto il movimento: «Oggi ho messo in musica la mia più dolce nostalgia. Lotto con lei. Ma lei vince. Tu metti al mondo un figlio. Che destino avrebbe questo figlio? E quale tu stessa? La musica suona così come tu sei, sorridente e in lacrime». Quel sorriso tra le lacrime sembra così reale nella malinconia accorata dell’aria, che si fa a volte sognante, a volte vivace e decisa, a volte sussurrata, a volte declamata. Così il sentimento, l’invisibile viene sublimato nello splendore di Lettere Intime fino a diventare immortale, incancellabile. L’Allegro finale è una sfrenata danza che si conclude in un addio lungo e carico di lirismo in cui l’espressione del proprio animo è esaltato e vivido. L’arte riesce a creare un ordine sublime nei tormenti invisibili del compositore, conferendogli un’impressione di idealizzazione dello stesso spirito umano.
Quale miglior modo per concludere un simile repertorio se non attraverso l’unione dei due ideali ribaditi in ogni momento del concerto? Senza dubbio in questo è adattissimo il Prestissimo del Quartetto per archi in Mi minore di Giuseppe Verdi: unendo patriottismo, desiderio di libertà e fermento politico e soprattutto umano, di coesione nazionale, il Quartetto d’Archi di Torino saluta il pubblico che da parte sua ricambia con generose e decisamente meritate ovazioni.
(Immagine: Johann Heinrich Füssli, Al chiaro di luna)