Si è rivelato di indicibile potenza e drammaticità l’esordio della nuova stagione concertistica di Appassionata, lo scorso sabato, scisso tra il dramma esistenziale delle più nebulose e intangibili note di Janàček, il mesto e appassionato misticismo frankiano, il virtuosismo di alcuni tra i più potenti e impervi Preludi di Rachmaninov, la commozione sublime della trasposizione per piano per mano di Liszt della “morte di Isotta”. Nicolai Lugansky è stato impeccabile nell’esecuzione e nell’interpretazione di ogni brano, dimostrando una tecnica assolutamente solida ed un virtuosismo puro e limpido, restando fedele alla fama costruita sin da tenera età (bambino, era stato in grado alla prima lezione di musica di eseguire una Sonata di Beethoven imparata ad orecchio) sulle sue capacità artistiche non comuni. Allievo della famosa pianista e docente Tatiana Nikolaeva e di Serguei Dorensky, ha vinto numerosi concorsi internazionali tra cui l’international Bach Competition di Lipsia nel 1988.
Sono state sufficienti le prime battute a far immergere la platea del Lauro Rossi nell’incanto malinconico e brumoso del ciclo pianistico V Mlhàch, In the mist, sibillino viaggio verso l’ignoto e l’introspezione, scritto da Leoš Janàček in un momento terribile della sua vita. Lugansky riesce a vivificare quell’impressionismo di fine Ottocento così atipico in questo brano: il soffuso tema iniziale si oscura e sembra incedere insicuro verso l’ignoto, nel grigiore di un giorno debolmente iniziato, in un’atmosfera nebbiosa resa in modo assolutamente efficace grazie all’uso di chiavi con cinque o sei bemolli. Avvengono repentini cambi di umore, carichi di nervosismo e pateticità resi attraverso la frammentazioni metriche e spezzature armoniche: il risultato è un torpore della natura, specchio limpido dell’anima, sospeso in una solitudine Romantica che termina nella quiete, per poi continuamente oscillare in moto ondivago tra agitazione ed immobilità. Il Molto Adagio è connotato da queste interruzzioni improvvise, singhiozzanti, che sembrano congiunte da un sottile scopo comune, come una debole fuga. Inizia una frase più drammatica e violenta, inframmezzata dagli accennati sussulti precedenti: il Dramma, finora in attesa, si palesa per un attimo, per poi essere di nuovo attenuato dalle soffuse nebbie. Inaspettata giunge una poetica tranquillità che si fonde in ampie frasi di grande dolcezza e malinconia sospirata, con gli accenni speranzosi di un canone mistico ed enigmatico, dal volo libero: si esce dalla frammentazione per giungere ad una ritrovata armonia, ad un canto di una fluidità emozionante che pure trova la sua fine. Con il Presto, ultimo movimento, torna la frantumazione del silenzio, il tormento, il dissidio, la continua lotta che appare incessante e priva di conclusione: le nebbie si dissolvono, la realtà è nuovamente visibile nella sua tragicità, gli impulsi si rinnovano. Il metro cambia continuamente e Lugansky dà sfoggio di grande maestria e virtuosismo: il suono è estremamente limpido, pulito, scandito e al tempo stesso riesce a non essere meccanico. Il pianista russo sembra immerso nella natura solinga di Janàček in quelle oscillazioni umorali, sintomo della depressione che il compositore si trovava ad affrontare. C’è un’ulteriore affinità che probabilmente deriva dagli scenari paesaggistici dell’est europeo, un immaginario che senza dubbio Janàček e Lugansky condividono e tutto ciò è affascinante, coinvolgente, quasi commovente.
A seguire, il pianista ci trasporta in un altro dissidio spirituale, tra violenza, tormento e ricerca di una pacificazione. Si tratta di Prélude, Chorale et Fugue di César-Auguste Franck, uno degli indiscussi capolavori del compositore, reso celebre dall’utilizzo del brano come colonna sonora di Vaghe stelle dell’Orsa di Luchino Visconti. Momenti di scoramento e lampi di resurrezione, attimi di indicibile e accorata dolcezza, misticismo fervido e umanità dirompente si fondono in questa costruzione vibrante e tormentata che trova il suo apice nel raggiungimento della pacificazione spirituale e nello splendore del divino. L’architettura è libera e moderna, seppur con riferimenti bachiani e wagneriani sospesi tra scale repentine, potenti e virtuose, come grido di una moltitudine di voci. La Fuga, il Preludio, il Corale si fondono nell’epilogo, in un equilibrio tra classicità e romanticismo; sembra di trovarsi nel mezzo di uno scontro tra forze demoniache e visioni angeliche, e Lugansky ci accompagna come Virgilio accompagnava Dante: si sofferma, indugia, accelera e inebria gli spettatori dello splendore dell’apice poetico franckiano.
Un virtuosismo limpido ed ineccepibile apre la seconda parte della serata, che vede susseguirsi repentinamente i primi 6 Preludi dell’Op.32 di Sergej Rachmaninov: un vero e proprio trionfo di una tecnica impeccabile che rapisce e lascia con il fiato sospeso il pubblico. L’Allegro Vivace in Do maggiore si conclude con un inaspettato epilogo luminoso; l’Allegretto è dominato dalla titubanza e da un tono malinconico che si tramuta in un tripudio polifonico e multiforme in bilico tra ripensamenti e vigore. Le atmosfere inconfondibili dell’ ultimo dei Romantici, profuse di melanconia e struggimento non perdono nell’interpretazione di Lugansky la matrice profondamente umana che domina la concezione poetica di Rachmaninov. Come egli stesso ricorda «La musica deve essere l’espressione della complessa personalità del compositore; deve esprimere il paese di nascita del compositore, i suoi amori, la sua religiosità, i libri che l’hanno influenzato, le pitture che ama. Deve essere la somma totale delle sue esperienze» in modo che il cuore non diventi un muscolo atrofizzato. Moltissimi musicisti non comprendono appieno questo importante aspetto, limitandosi ad un’esecuzione meccanica, inanimata, tecnicista delle sue composizioni: non è questo il caso di Lugansky, ed è facile accorgersene dalla coerenza che ognuno di quei sei brani assume, dalle sfumature infinite che le note assumono sotto le sue mani.
Les jeux d’eaux à la Villa d’Este da Années de Pélerinage (troisième année) di Franz Liszt segue gli articolati preludi di Rachmaninov: l’atmosfera muta nella lirica descrizione delle armoniose bellezze della Villa d’Este di Tivoli. Anche in questo caso l’incanto melodico non si ferma alla meraviglia estetica, ma vede nell’antica arte un valore trascendentale e mistico: l’acqua che zampilla dalle fontane è per Liszt emblema della fonte battesimale, dall’acqua che porta l’eterna salvazione che si manifesta a distanza di migliaia di anni, come miracolo imperituro che si rinnova continuamente. È dalla fonte che giunge la redenzione, la purezza, come nella Natura l’uomo può ritrovare la sua essenza. Ancora Franz Liszt è protagonista dell’ultimo brano in programma.
Il filone mistico che ha legato ogni parte del concerto trova il suo spettacolare coronamento in una meravigliosa trascrizione per pianoforte della Morte d’amore di Isotta (Isolde’s Liebestod) tratta dal Tristan und Isolde di Wagner, in cui l’eroina Isotta invoca la morte attraverso uno struggente canto d’amore, rapita dal volto del cadavere di Tristano. La Morte d’amore di Isotta è una trascrizione incredibile, che riesce a fondere le multiple voci dell’orchestra in un solo strumento senza tuttavia perdere la drammaticità e lo spirito del capolavoro wagneriano: certo, per essere resa adeguatamente all’esecutore è richiesta una suprema arte del tocco (non possiamo dimenticare la splendida interpretazione di Vladimir Horowitz, registrata pochi giorni prima della morte). Nikolai Lugansky riesce a fornire una valida e commovente interpretazione del dramma, che si conclude con la ritrovata pace giunta con la morte e con la promessa del ricongiungimento dei due sfortunati amanti, epilogo che Wagner stesso, in una lettera scritta a Liszt definisce come un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. La supplica di Isotta, non udibile, è tuttavia splendidamente espressa dall’espressività di Lugansky, altrettanto emozionante come quella esplicita dell’Opera: “Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Dovrebbe chiudersi così, maestosamente, il concerto di Nikolai Lugansky. Il pubblico non smette di applaudire, invece, e il Maestro regala tre ulteriori brani: una deliziosa arietta di Edvard Grieg e due famosi preludi di Rachmaninov, tra cui il celebre Preludio Op.23 n.5. La scelta del repertorio del concerto è significativa, oltre all’innegabile virtuosismo del pianista: si vuole superare la semplice apparenza, l’arte fine a se stessa per giungere ad un’Ideale di trascendenza che parte dall’interiorità dei compositori scelti, tutti in bilico tra Ottocento e Novecento, tutti in qualche modo turbati e disorientati dallo sfacelo delle certezze, in un’Europa che si prepara agli orrori dei conflitti mondiali e della frantumazione dell’ identità politica e morale. Janàček, Franck, Rachmaninov, Liszt reagiscono attraverso la potenza dirompente delle loro composizioni e si fanno forza, ci fanno forza, aprendo nel nostro cuore un barlume di speranza verso qualcosa al di là delle sofferenze, verso un epilogo che, al di là delle apparenze, possa portare appagamento e serenità. A più di un secolo di distanza Nikolai Lugansky vuole ribadire lo stesso messaggio, riuscendo allo stesso tempo a far brillare di emozione gli infiniti occhi del teatro gremito.
(immagine: Johann Heinrich Füssli, Il sogno del pastore)