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di Lucia Cattani

 Niente è infatti contrario all’ombra,

e precisamente né la tenebra, né la luce.

 (Giordano Bruno)

Storie di ombre antropomorfe, nascoste da un gelido velo che impedisce alla luce di filtrare, hanno accolto il pubblico in sala. Le vicende mostrate da ogni figura celata sono drammi della solitudine e dell’emarginazione, malinconiche realtà di qualcuno che non riesce a creare un ponte con la vita, nonostante il desiderio, soffocato da dinamiche inumane eppure così quotidiane. Un atipico clown, una donna che danza solo quando è sola, una ragazza che continua a scrivere compulsivamente a qualcuno che forse è solo una proiezione di sé, un uomo privato dell’amore, un bambino con un pennello che non sa usare, sono solo alcuni dei personaggi che prendono parte alla vicenda: chiamati Palotini, in contrapposizione alla valorosa e comune visione che si ha dei Paladini medievali,  sono preda della loro scarsa autostima, di una mediocrità condivisa che li tiene soggiogati in un’accettazione assuefatta, come lobotomizzati, alla misteriosa figura di Padre Ubu, ispirato al protagonista di “Ubu Re” di Alfred Jarry, anticipazione del movimento surrealista e del teatro dell’assurdo.

Protagonisti della scena sono i ragazzi del gruppo Clorofilla, formato da persone con disabilità e non, accomunati dall’esperienza comunitaria nel territorio della Vallesina.  Ospiti al Teatro Lauro Rossi grazie ad una collaborazione con Teatro Rebis che prosegue dal 2007, sono il frutto di un corso di teatro che affonda le proprie radici sulla condivisione reciproca di esperienze e fa emergere le diverse potenzialità di ciascun attore grazie ad un percorso scenico dominato dal contatto, osservazione ed ascolto, stimolando insomma la predisposizione espressiva di ciascuno, anche in base alle diverse problematiche. Sabato 31 il gruppo Clorofilla ha portato in scena uno spettacolo singolare e misterioso, scritto e diretto dal regista Andrea Fazzini: si è trattato di un’opera senza dubbio suggestiva e toccante che è davvero stata capace di far emergere le incredibili potenzialità di questi ragazzi che quotidianamente si trovano a combattere con le tematiche emerse dallo spettacolo, soprattutto l’incapacità di comunicare e di trovare la propria libertà espressiva in un mondo mosso da dinamiche per lo più asettiche e disumanizzanti.

Le ombre anonime dei Palotini che dominano la prima parte dello spettacolo si trasfigurano in occhi  tramite videoproiezioni, come fossero specchi di quelle vite appena abbozzate poco prima. Si entra così in una dimensione di umanità in preda al dolore e alle sofferenze, ma anche al disorientamento, alla sfiducia, all’apatia testimoniate dagli sguardi svuotati e dalle rughe che solcano drammaticamente palpebre e pelle in cui tuttavia c’è ancora una profonda umanità. Insieme agli occhi, voci fuori campo come a ribadire lo straniamento e la solitudine dei protagonisti, l’essere Ombra, oppressi dalla loro stessa incapacità di mostrarsi, dalla certezza di essere estranei alla realtà sociale e quindi relegati in una specie di prigione onirica, una sorta di limbo scisso dalla burocrazia della società dei “sani”. Padre Ubu è emblema parodico del potere cieco e massificante, profuso di slogan tartassanti e creatore di un’informe agglomerato di esseri simili a marionette, prigionieri di rituali ossessivi e compulsioni patetiche. Non è chiaro se però sia semplicemente un essere subdolo e prevaricatore o una parte recondita, che è presente in ognuno di noi.  Il punto nevralgico della rappresentazione è proprio l’interrogativo che si crea da questa situazione: che cosa si muova dietro gli occhi dei Palotini, immobili nelle loro catene di incomunicabilità, create da Padre Ubu, mentre si accorgono del deflagrare delle proprie esistenze insignificanti, se sia invece possibile aprirsi ad un dialogo con gli altri e farsi forza, magari proprio grazie alla comunicazione creativa. In questo modo entra in gioco la responsabilità individuale, lo sguardo interiore e la comprensione del proprio valore di essere umano capace di rifiutare le dinamiche stranianti del regime imposto da Padre Ubu. L’ombra, parte più intima e all’apparenza insignificante è la chiave di volta per capire la propria natura nascosta, inconscia e soffocata dagli orpelli della società denaturata. Dopo le confessate storie delle ombre, dopo la suggestiva verità degli sguardi lo spettacolo si vivifica mostrando il presente, in cui ogni slancio vitale trova la morte. Il limbo nel tempo tende all’abisso, finché Ubu riconosce che “Le parole si sono spente. Non c’è più materia da deturpare”: è la fine per il tiranno, che si spoglia delle sue infinite maschere mostrandosi quasi del tutto disarmato. I Palotini sono infine liberi di continuare la propria esistenza priva  di significato ma anche di capovolgere la situazione prendendo in mano la propria esistenza, inebriandosi di quella libertà che sino alla caduta di Padre Ubu era stata da loro sempre temuta. Il futuro è da scrivere, la creazione non finisce: dal fondo dell’abisso non si può ulteriormente scendere, ma solo salire.

Ombra Profonda Siamo, oltre il considerevole valore oggettivo e suggestivo realizzato da Andrea Fazzini si carica di un ulteriore pregio che va al di là dell’interesse artistico finora analizzato: l’attività è riuscita a dare voce a persone che si trovano in una situazione di svantaggio ed emarginazione sociale, e ha fatto questo con grande raffinatezza ed equilibrio, riuscendo davvero a far emergere voci troppo spesso dimenticate e lasciate nella solitudine di qualcuno che quasi mai viene considerato nella sua dignità e importanza. Lo spettacolo, la recitazione, l’essere artefici di qualcosa di bello è qualcosa che sicuramente permarrà in questi artisti, come senza dubbio l’impegno del gruppo Clorofilla è stato capace di colpire i presenti per l’efficienza e l’umanità. Il valore dello spettacolo, di per sé molto interessante e criptico, capace di incuriosire e affascinare, è esaltato dalla presenza di questi ragazzi che hanno saputo dimostrare come far emergere le proprie passioni pur nella difficoltà e nella sofferenza della loro condizione.

(immagine: indianapublicmedia.org)