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di Eleonora Tamburrini
“Non è stagione di luoghi” è un verso lampo, mentre una delle due piogge scandisce il fuori. E “Bagnanti”, ultimo lavoro di Renata Morresi già vincitore del Premio L’Erudita 2011 e da poco edito da Perrone, appare un libro di attraversamenti e soste in spazi assoluti e dissolti. A percorrerne la costruzione in quattro momenti (“Bagnanti”, “Aeroporto”, “Vendesi” e “Trenitalia”), è difficile pensarlo a ritroso nella precarietà di una genesi. Viene da immaginarlo nato così, rotondo, nello scivolamento perfetto da una sezione all’altra, da un non luogo all’altro: le Pelagie, l’aeroporto, gli appartamenti prima di appartenere, i treni. Viene pure da connettere il tempo a questi non luoghi – che è poi supporre loro una vita – ma “non è stagione”: lo spaesamento – storico, esistenziale – si accorda a un’implacabile aritmia, quella già dichiarata nella precedente raccolta “Cuore comune”: “Non siamo tutti nello stesso tempo” (anche lì, fuori, pioveva). A fronte dello scarto, la prima risposta di questa raccolta sta nella congruità di una forma perfetta: direbbe Cristina Campo, “selvaggia e composta reazione”.
Così è lo sguardo di Morresi sulle cose e le persone: laterale, staccato, composto appunto, e però selvaggio perché segretamente connesso ad esse, e capace di condurre a rivelazioni improvvise per prodigi visionari (specie nella sezione eponima) o per via d’ironia (“Vendesi”, “Trenitalia”). Il verso risponde con una raffinata aderenza del suono al suo senso, un senso trascinato a capo per curve e per archi (sono queste tra l’altro le linee descritte con maggior frequenza). Eppure sono parallele e diverse le scelte compiute per arrivare qui: una lingua immaginifica, pulsante (“gola plena di camelia”, 24) si interrompe nella rasoiata della parola usata e concreta (“mugola da scorza vecchissima / mugola mucosa / ulcerata dalla plastica”, 15), fino ai riuscitissimi esercizi di presa diretta dalla realtà. In “Vendesi” le case vuote abitate dall’ombra degli altri, gli inquilini precedenti, le vite inesprimibili all’altro capo della cornetta, si raccolgono nel giro stretto di ottave classiche eppure scardinate: qui perfino il lessico standard dell’agente immobiliare ritorna a nuova vita, resiste all’abuso dell’usura e della menzogna. Gli esiti sono spesso comici, disarmanti: “Se scende se gira se sale un gradino / se guarda oltre il piano stradale è soltanto / appena un passare qualcuno non conta / la pendenza se apprezza l’ideale / nicchia diagonale pronta per l’incastro / studiato dello studio, e la finestra / sul cavèdio è il male minore se trova / come comprendere un tavolo in obliquo” (46).
In “Trenitalia”, il nastro che scorre in corsa, il paesaggio, è quasi tutto al di qua del finestrino: si ricompongono le mezze frasi, si suppongono le vite intere e passanti dei compagni di viaggio sconosciuti. Nell’insieme, le parole rubate loro suonano come l’“interlingua parlata tra i due extra” (64), aggrappate al mantra del “non prende” o all’ultima tacca del telefono. Ma chi scrive non vuole farne solo perturbanti, divertenti objets trouvés: la poesia sembra farsi carico di quanto resta di realmente condiviso.
Nella sezione finale di “Cuore comune”, una poesia si chiudeva così: “come se fosse nato ora / dall’interno, un fiume”. L’interno era una casa, ancora una volta, nemmeno allora spazio di vero “appartamento”, ma piuttosto sorgente, giuntura. Chiudere con un fiume e ripartire con Virginia Woolf in epigrafe mi pare significativo e bellissimo, segnale di una continuità evidente, ma anche di maggiore apertura e consolazione. Dice Woolf: “Non credo che siamo esseri separati, soli”. Dunque, anche se non tutti “nello stesso tempo”, malgrado il nostro sfasamento di individui rispetto al mondo e al tempo vorace, può tenerci uniti un fiume in cui siamo partecipi e presenti, bagnanti.
Ritorno alla prima sezione, che mi sembra la più potente e ricca di suggestioni. Ci troviamo a differenza che nel resto del libro in una geografia riconoscibile, l’arcipelago delle Pelagie. Assieme a chi scrive, siamo abbacinati da una natura in purezza, scabra e bellissima, e chiamati a confrontarci di forza con l’umano: la ressa dei turisti, incerta e sguaiata in un orizzonte zenitale, è percepita da lontano. La distanza rallenta i movimenti fino quasi ad annullarli e Morresi può guardare agli uomini come a una specie antichissima di cui rimangono resti, ombre, segnali. Allora le Pelagie non appaiono molto diverse da altri non luoghi, ma si prestano a diventare un’ipotesi di regno preistorico, un varco spazio temporale in cui le persone si saldano alla terra, si incrostano ai fondali, la pelle indurita in carapace; il mare che circonda l’arcipelago e che altrove terminava nella terra e nell’orizzonte (Il mare alto, in “Cuore comune”), qui è ancora più indefinito e strania i contorni della folla brulicante. Ma non c’è cinismo in questo sguardo: il distacco permette lo stupore, la ricerca è uno “stile nobile” che evita il disprezzo tanto quanto la pietà e approda a una compassione discreta. Si tratta soltanto di “risalire /all’indietro”(7) e di osservare l’incedere della specie, in dubbio tra progressione e regressione, su un comune terreno che la consuma ma la salva dall’estinzione: “sulle sabbie non passi /ma strusci di calli nudi /graffiati dallo stesso verso / come pelli – / partoriranno tutti /anche i vecchi” (8) e ancora: “dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii / vedrebbero popoli morbidi lentissimi / fondersi agli anemoni polipi i tanti /piedi avvinghiati agli scogli/staccarsi, larve sbocciare/in azzurri / dagli astri, gli stessi / continuamente fossili” (11).
La metafora fossile è tra le più emblematiche del libro e appare non solo tra i calcari e le lave di Lampedusa e Linosa (“posa ciclica di scheletri di silice”, 21; “denti, falangi in fila /sulla sabbia sotterranea, sui gasdotti /dove affaldano reperti,/ strati di crani, depositi di ciglia”, 22), ma anche dove è più imprevista, ad esempio in “Vendesi”, nella telefonata del lontano parente: “a cercare un accento uguale di storia / una voce che sbriciola come certi / fossili d’un tratto raggiunti dall’aria” (53).
Mi viene in mente Seamus Heaney, per il suo lavoro sulla parola come scavo (“Digging”, un altro indefinito presente come titolo), ma soprattutto per lo scavo storico, incredibile, che ispira “North” (1969): in una torbiera danese vengono ritrovati corpi risalenti all’età del ferro perfettamente conservati, con visi, capelli, unghie, vestiti intatti, da millenni. Quei morti, identificati come vittime sacrificali, incarnano per il poeta l’orrore contemporaneo del conflitto nord irlandese, ma più in generale il popolo delle paludi diventa il simbolo di un dialogo possibile con un pretempo che non è semplicemente il passato. Nella loro immobilità i fossili sono il residuo, ma anche l’essenza, dunque la permanenza: potrebbe persino trattarsi di futuro. Questa dimensione che chiamerei di presente profondo mi sembra molto forte anche in “Bagnanti”: è un tempo, una condizione che ci apparenta come esseri umani e che si tenta ora di risalire ora di spingere in avanti. È evidente fin dal titolo che per Morresi la sostanza connettiva di questo stare insieme è l’acqua, che offre tra l’altro un modulo metaforico piuttosto simile alla terra, fatto di altezze e profondità, di immersioni e risalite, al punto che spesso le due immagini si trovano congiunte; penso alle poesie “Energia I” e “Energia II” o a un passaggio di “Trenitalia”: “risale su Vettore, /Sibilla, Priora / come quando c’era il mare e / le sacche di viscere e muscoli / vive leggevano i tarocchi / a noi fossili / futuri, / amen – / così sale suo padre / uno della catena / degli antichissimi treni / così tanti / che nessuno può partire / solo camminare all’indietro / attraverso le sabbie, l’argilla / il silt” (62). Morresi diceva in fondo lo stesso già nella prima sezione: i “fossili /futuri” sono uguali e inversi ai “relitti d’astronavi”(14); poco prima gli stessi bagnanti erano anagrammati in “rettili”, mimetizzati, inglobati dal paesaggio e più tardi li si vedrà assumere sembianze aliene, “tutti grigi extraterrestri” (20).
Il movimento quindi non conta nella sua direzione (discesa o risalita, avanti o indietro, regressione o proiezione), conta che avvenga, perché in questo vive la relazione tra persone, che non si instaura, accade. E sono le relazioni a fare i luoghi più dei luoghi, anche dove i luoghi non ci sono.
Capita di pensare, leggendo, anche alla desolazione del Paese presente. Desolazione proprio in senso etimologico, come spaesamento: l’Italia è sempre più un non luogo, e gli italiani gente arresa, in fuga, senza suolo. Non servono forzature retoriche: questa raccolta conduce fin qui, e quello che vale in senso esistenziale, vale anche in una prospettiva sottaciuta ma tenacemente storica e civile. D’altronde viene dalla cronaca l’icona del libro, la profuga annegata dopo l’ennesimo naufragio intorno a Lampedusa, che affiora col suo velo viola a farsi segnale per le ricerche e “bandiera”, la più intatta.
“è che a forza di pensare all’Italia / siamo diventati un po’ Italia anche noi”: che si tratti qui degli italiani privi di un Paese che li individui e li determini, o dei migranti “nome altrove o sans papier” non ha poi molta importanza. Si galleggia tutti allo stesso modo, conta solo distinguere tra morti e sopravvissuti. Non è una visione consolante per un Paese riconoscere che comunque il mondo accade, che si va avanti “senza”; ma l’ambiguità dei due versi suggerisce anche una serie di possibili domande, su che cosa possiamo ancora includere in quel “noi”, se sia proprio questo l’unico luogo, l’unico confine necessario, o quale sia la giusta distanza tra individui che permette a un insieme di salvarsi.
(foto: Mario Giacomelli, da Il mare dei miei racconti)
Gli esseri umani che Morresi osserva e che raccoglie nella posizione liminale dei bagnanti, sul pelo dell’acqua senza essere né immersi né emersi, sono i compagni di viaggio in una realtà in cui risulta arduo l’allaccio di una comunicazione, di un contatto che ci impedisca la sgradevole sensazione di viaggiare in solitudine.
Per questo queste poesie vanno alla ricerca, in una paziente ed inesausta enquete, di una traccia che più di una traccia sia: brandelli di conversazioni (“Trenitalia”), contorni di vecchi mobili sui muri dei vani delle case in vendita (“Vendesi”), brani fossili del passaggio di un’umanità disgregata e lacerata dalle progressive cecità e saturazione dinanzi alle tragedie che accadono intorno ad essa.
Tuttavia, in tutto il libro resiste una tensione a comprendere (in senso etimologico) e a scardinare le barriere, per arrivare al nucleo dell’umanità per riscoprire il battito di quel “cuore comune” che dà ancora senso al nostro esistere.
mdp
“Non è stagione di luoghi” risuona anche del suo contrario “Non sono luoghi di stagione”. Non sono per passare, questi luoghi, non sono temporanei ma con/temporanei a riferimenti museali, a reperti testimoniali d’una umanità che muta nelle squame di “rinati tutti a caso / uomo, donna – “ e, ancora “dagli astri, gli stessi / continuamente fossili”. A tutta evidenza (ellittica, forse, come Dickinson) l’apparenza priva di sostanza cosciente che spetta all’umano far evolvere, per fare del caso l’assunzione di responsabilità della propria vita.
Non sono luoghi balneari, quelli più drammatici di cui si occupa l’Autrice
di “Bagnanti”. E lo rende comprensibile con un’attenzione alla singola parola, tale da renderla irremovibile perché assuma la massima potenza. Tale quindi,la parola, da costringere chi legge a fermarsi, ad immergersi in quel preciso senso proprio, se vuole com/prendere, come l’autrice stessa ha dovuto fare. Giustamente Marco Di Pasquale, nella sua nota, richiama la qualità etimologica di questa parola importante “comprensione”.
Non sono luoghi di appartenenza l’ “Aeroporto” dell’estraneità, il “Vendesi” senza identità, il “Trenitalia” privatizzato pure nella sua forma gestionale. Titoli e scansioni già da sole sono un annuncio, una presentazione di luoghi altri, nascosti nel significante più che nel significato. Non manca, in queste poesie, né luogo né spazio. La loro collocazione piuttosto è la novità che portano dentro, con insistenza ed un precisione di lama affinata, esercitata da mani di dama.
Ovunque il suo (d’Autrice) sguardo si posa, non è la precarietà ad essere messa in luce, ma la certezza che si fa sottile, inevitabile, e perfetta ironia, graduata in un così forte stile riservato, da nascondersi un po’ ovunque, quasi gioco. Quasi attesa.
Sì, sono d’accordo con Eleonora: “sono le relazioni a fare i luoghi” e non viceversa. Qui c’è un caposaldo irreversibile. Senza rovesciamenti possibili.
“tutto questo accade insieme / tutti insieme tutto in una / volta sola mai decisa /sempre uguale ripetuta “. Oltre che un compimento stupendo di quel “non credo” di Virginia Woolf, questi versi dicono qualcosa di immutabile. Che ne sia cosciente o no, l’umano è depositario di questa realtà unica, elemento e collagene per tutti: l’accadere, appunto, fin dalla nascita ed anche forse, fin dall’altre stelle? Un accadere non solo filosofico, ma depauperato energeticamente. Un accadere quindi anche bio/genetico, bio/energetico, da scuotere e dis/taccare, mai così necessario per questa umanità di ridotta intensità sensibile, percettibile. Quando prevale la povertà materiale, reale e terribile, forse è bene andare al suo fondo, rovesciare – qui sì il suo significato -, scavarne il vero, per ritrovare appartenenze non velate ma ripudiate.
“Nessun luogo, da nessuna parte”, infine, di Christa Wof. Un’altra donna della genealogia femminile che ha tentato di ricostruire e concatenere luoghi e tempi di relazioni significative che “non cessano di non parlare”, dice Milo Di Angelis per chi si è fatto luogo di un tempo passato/finito.
Ma qui, in questo libro, nulla è finito… Questa la grandezza che separa dall’opacità dell’in(de)finito.
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