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Escher-Three-Spheres-II

di Lucia Cattani

“O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, 
mirate la dottrina che s’asconde 
sotto ‘l velame de li versi strani. “

(Dante Alighieri, Inferno, canto IX)

“Gli azzardi accendono le ipotesi”: partendo da questo ardimentoso paradigma si diramano i pensieri, i concetti, le emozioni che sono propri della saggista e poetessa Rubina Giorgi, protagonista lo scorso 25 settembre di un’illuminante conferenza alla Biblioteca Filelfica di Tolentino. L’incontro, introdotto  da Andrea Fazzini, ha coinvolto materie d’interesse apparentemente con ben poco in comune, vertendo appunto su ipotesi che per essere pronunciate e sostenute hanno senza dubbio bisogno del sostegno di argomentazioni adeguate: di questo la scrittrice è stata senza alcun dubbio capace, riuscendo a trovare un connubio affascinante e delicato tra linguaggio scientifico e arte poetica, in un modo personalissimo che sfiora l’autoironia. Con grande chiarezza e suggestione la Giorgi ha creato un fil rouge tra poesia, filosofia e neuroscienza, aprendo nuovi orizzonti interpretativi e, appunto, incoraggiando il mondo culturale e scientifico ad “azzardare” coraggiosamente, lasciando entrare la creatività anche in ambiti in sembrerebbe assolutamente estranea. Insieme alla poetessa, che è stata docente di Filosofia del Linguaggio e di Estetica nell’Università di Salerno e collaboratrice dell’Istituto di Studi Filosofici E. Castelli nell’Università di Roma, sono intervenuti Chiara Guidi, fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio, il poeta Giarmando Di Marti e Ubaldo Sagripanti, psichiatra e scrittore: personalità senza dubbio diverse tra loro, che hanno definito l’opera della Giorgi con modalità diverse, a seconda dell’ambito di studi di ognuno, fornendoci tre letture diverse, seppur in un certo modo affini, del pensiero della poetessa che sono poi confluite nella conclusione della scrittrice stessa. La conferenza non si è limitata alla semplice presentazione dell’ultimo libro di Rubina Giorgi, Sofismi, filosofia e neuroscienza, ma ha fornito una ben più ampia visione del suo pensiero, citando spesso un’altra sua pubblicazione precedente, “Che farò senza il mio ben?”.

Chiara Guidi è partita proprio da quest’opera, da cui ha estrapolato un frammento significativo, una sorta di parabola contemporanea che vuole rispondere ad un arduo quesito: ciò che appare consunto può essere morto o invece può rivelarsi creativo di qualcosa che non c’era?  È evidente  il contrasto profondo tra due diversi modi di affrontare la vita, un atteggiamento che supera condizioni sociali o culturali. Protagonista è la stessa autrice che nel corso di un pomeriggio si trova ad affrontare due situazioni in apparenza con nulla che le accomuni: la visita da un oculista che si arrende di fronte alla consunzione degli organi prodotta dal tempo. Il dottore  ammette alla donna di essere disarmato di fronte alla fatalità degenerativa, a suo avviso impossibile da contrastare, pur essendo egli  portatore e discepolo del progresso scientifico. Personalità opposta è invece quella di una benzinaia, senza dubbio più umile rispetto al luminare, che giunge ad aiutare la protagonista, uscita amareggiata dalla visita oculistica, riuscendo a riparare un  guasto apparentemente irreversibile dell’auto. La benzinaia compie il gesto con spontaneità ed umiltà, battendosi contro il congegno usurato: è grazie a lei che si concretizza una sorta di intraprendenza vitale che invece sembrava essere spenta nell’incapacità di reagire dimostrata dall’oculista. Pur nella sua piccolezza la donna è colei che si autotrascende, supera se stessa e le avversità solo per il fatto di voler far del bene. Può essere considerata emblema di un “affetto universale incarnato nell’offrire risorse vitali”, una vera e propria forza motrice del mondo.

Di diversa forma  è l’intervento dello psichiatra-scrittore Ubaldo Sacripanti, che fa partire la sua trattazione da Sofismi. Fornisce una lettura in chiave scientifica dell’opera di Rubina Giorgi, analisi che grazie alle competenze del relatore non si ferma alla semplice definizione psichiatrica, ma assume risvolti filosofici fino a giungere ad una visione dell’arte che si lega in un particolarissimo connubio alla medicina. L’autrice pone infatti in relazione il cervello e il nostro corpo, narrando questo legame in modo del tutto originale, creando parallelismi tra esperienza umana e  realtà scientifica. Dal momento che quest’ultima deve essere sempre riproducibile e classificabile mentre l’altra non segue classificazioni, si crea un limite alla scienza, e l’occhio di colui che la pratica (ricordiamo l’esempio dell’ottico e della benzinaia) finisce per bendarsi. A questo punto ci troviamo a riflettere su un nuovo paradigma illuminante della Giorgi:  ad aver significato e valore è la conoscenza che si è, non che si ha; è un invito al dialogo tra le discipline, che come Sacripanti ha ricordato, si è concretizzato nella recente scoperta dei neuroni a specchio. Con le parole di Mauro Mancia si può dire che “la psicoterapia influenza l’espressione proteica dei geni”. Si compie, in pratica, una sorta di modificazione tra neuroni: quando avviene un dialogo tra due persone, la carne stessa dei cervelli cambia. Oltre al cervello anche il cuore, per la scienza muscolo tendineo che si contrae, quindi per secoli giudicato clinicamente del tutto estraneo ai sentimenti e agli affetti, si è rivelato invece molto più affine ad una visione  più particolare e istintiva dell’organo, chiaramente poetica ed empatica, a seguito di  interessanti studi medici che hanno portato, nel 2008, ad accettare il fatto che esista quel fenomeno chiamato crepacuore (ribattezzato sindrome di Tako-Tsubo, o cardiomiopatia da stress): in presenza di questa patologia infatti l’infarto non sussiste. Semplicemente il cuore si paralizza, a seguito di una forte emozione,  a volte si ferma del tutto. Il fatto che quest’organo fosse a tal punto legato alla sfera sentimentale era stato intuito dai poeti da tempo immemorabile: Rubina Giorgi ha descritto questo forte legame tra cuore e cervello descrivendo l’ultimo come dono continuo che pulsa di tutti i ritmi possibili. Carne, intelletto, sentimenti sono in realtà inscindibili: cuore, cervello, carne rappresentano tutto l’essere.

Il poeta Germando Di Marti focalizza il suo intervento, invece, su “Che farò senza il mio ben?”, opera a suo giudizio  dal contenuto ondivago capace di usare la complessità come elemento del conoscere. Con Di Marti si passa dalla neuroscienza alla filosofia vera e propria, attraverso una complessa esposizione , che ha il suo fulcro nella definizione del Seme della metamorfosi dell’umano, attraverso il superamento della già affrontata tripartizione corpo-cervello-mente, che vede l’ultima dotata della capacità di autotrascendersi ,o in altre parole di trovare forze inaspettate, quasi miracolose, nelle capacità individuali di ciascun individuo che permettono la trasformazione e l’avventurarsi oltre i propri limiti. Per Rubina Giorgi è necessario superare l’idea di scienza come materia a sé stante. Scrive infatti: “lo spirito non è ciò che trascende il corpo ma ciò che ne emerge” . Secondo tale ottica la scoperta dei già citati neuroni a specchio potrebbe essere interpretabile come un rapporto biunivoco tra carne e spirito, operando un passaggio dalla visione concreta e visiva a quella immaginifica. Di Marti richiama Cartesio: che il tempo del sogno del filosofo della Mirabilis Scientia, o Scienza Totale, che investe ogni disciplina di sapere creando un rapporto di reciprocità tra natura e cultura e la successiva duplice rinascita e metamorfosi dell’umano, sia finalmente giunto? Il poeta considera il sentimento del mondo legato all’impazienza mutativa, ad un desiderio di “farsi dio” o “deificazione” che passa attraverso il sentimento del mondo. In questo modo ribadisce l’esistenza di una dimensione fisica della mistica, in cui ad operare è il sognum, pensiero sognativo che si trasforma in immaginazione. Secondo la poetica di Rubina Giorgi è come se la scienza abbia aperto i propri orizzonti, come se si fosse messa a sognare. Un criptico quesito viene però lanciato dalla scrittrice: Pensi tu che Dio si assenti quando si affievolisce la nostra umanità?

Si conclude l’incontro con le affascinanti considerazioni di Rubina Giorgi, che prende la parola. Per la poetessa ” è l’invisibile che diventa modello del visibile”, spiega, “poiché la nostra essenza umana non è esausta ma nasconde una vena creativa nella mente che vuole essere sollecitata. Il nostro essere mostra dei possibili, non oggetti stabili. La speranza è che si adoperino tutte le forze per attingere all’ulteriorità della nostra essenza, altrimenti come si sentirebbe l’esigenza di Dio?  Certo, occorre un adoperarsi: stabilità, identità, ordine sono apparenze di comodo se non confrontate con ciò che le contraddice. In una realtà complessa come quella dei viventi i contrasti agiscono insieme: la contraddizione dev’essere sostenuta perché i termini di contraddizione agiscono insieme. L’energia pur mantenendosi si dissipa: da ciò si è trovato che nelle situazioni instabili si formano nicchie di stabilità e si creano eventi nuovi; è presente una vera e propria forza creativa. Le connotazioni negative dell’entropia si mutano in positive: viviamo infatti in un mondo instabile e ognuno deve impegnarsi a creare, ed il nostro non è un mondo frammentario come quello che si percepiva nell’Ottocento. L’individuo è un mondo potenziale che presuppone la relazione con l’invisibile: il lavoro della vita è quindi difficile, ma è nostro compito trarre la nascita individuale e collettiva dall’instabilità. Bisogna tener conto della speranza che passa attraverso scienza, filosofia ed arte: siamo all’altezza dell’instabilità che ci travaglia.”

Questo incontro a dir poco emozionante e ricco di spunti di riflessione può essere giudicato a mio avviso uno dei più interessanti eventi organizzati finora dal Festival dell’Ospitalità 2013, organizzato dall’ADAM. Dopo aver sollevato quesiti grandemente interessanti ed affrontati in maniera eccellente, la serata ha avuto il merito di mettere in luce la figura di una valida intellettuale, di rara sensibilità, di grande umiltà e soprattutto di ammirevole tenacia ed intraprendenza che può tradursi nel motto finale, citazione di Thomas Becket, pronunciato da Andrea Fazzini per coronare degnamente l’evento: “Prova ancora, fallisci ancora, fallisci meglio”.

(immagine: Escher)