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di Camilla Domenella
Di Sofocle, di Von Hofmannsthal, di David Quintili. Tra le mani di costoro, per visioni e revisioni, è passata l’Elettra andata in scena domenica scorsa, penultimo appuntamento della stagione teatrale 2013 “Palpitare di nessi” del Teatro Rebis di Villa Potenza.
Gli spettatori arrivavano alla spicciolata, chiacchieroni e distratti. Quasi festanti, facevano per aprire la porta del Teatro…. e lo trovavano vuoto. La platea era sgombra delle poltrone, il palco abbandonato, le luci semispente. “Ma come? Dov’è lo spettacolo?” “E’ questo il Rebis?” “E’ questo, è questo!”
Sconforto, delusione, o rabbia avrebbero potuto cogliere gli spettatori, se questi, proseguendo e curiosando, non fossero infine incappati nella scena stessa dello spettacolo!
Aggirato l’edificio del teatro, si apriva un piazzale malmesso, sorvegliato da una palazzina scheletrica e malaticcia, e da una bocciofila dalle mura scrostate. Sul muro del teatro, che fungeva da fondale della scena, passavano proiettate immagini in bianco e nero. Stesi a terra, due teli bianchi delimitavano lo spazio dello spettacolo. La luna che troneggiava in cielo faceva da riflettore puntato.
Quest’ambientazione underground suggeriva immediatamente un’originalità studiata ma non ostentata. La sfida era mantenere questa stessa originalità non “pacchiana” per tutto lo spettacolo.
La scena si apre solennemente sulle quattro serve della casa – Cristiana Brizi, Francesca Contigiani, Francesca Marchetti, Lucia Connestari – intente a volgere i loro lavori quotidiani, come anche le sorelle Elettra e Crisotemi, egregiamente interpretate rispettivamente da Alessandra Orazi e Arianna Guzzini.
Elettra si sfoga, si lamenta della sua condizione di schiava in casa sua, di serva degli assassini di suo padre Agamennone, implora con veemenza la sorella Crisotemi di vendicare il padre.
Torna Oreste -, che si palesa alle serve ma non alle sorelle, dice a quelle di giurare che lui è morto. Clitennestra, apprendendo la notizia della morte del figlio Oreste, si sente sollevata: nulla più minaccia la sua felicità e il suo trono condiviso con l’amante Egisto.
Oreste si svela ad Elettra: insieme organizzano la vendetta. Clitennestra deve morire, e con lei Egisto. E’ Oreste che compirà la tragica azione.
Il testo scelto per la rappresentazione era quello di Hugo Van Hofmannsthal, scrittore e drammaturgo viennese d’inizio Novecento, che, inserito in quella temperie culturale di scoperte scientifiche e “ferite narcisistiche” a lui contemporanea, propone un’ Elettra esclusivamente umana. L’Elettra che ci presenta Van Hofmannsthal è ben lungi dall’essere un semplice personaggio-marionetta degli dei: Elettra è una figlia offesa dalla sua stessa madre, costretta a fare da schiava nella sua stessa casa, ma determinata, e mossa a vendetta non da un ordine di Nemesi divina, ma piuttosto dal “calderone ribollente degli istinti”.
La regia di David Quintili accoglie la solennità del testo di Hofmannsthal in un insieme tragico ed ironico. I personaggi non indossano vesti che riproducano la moda antica, nè si inseriscono in un’epoca storica ben precisa, se non quella paradossale a noi contemporanea. Essi si trasformano in caricature di se stessi, in macchiette, in stereotipi, che parlano però la lingua aulica ed appassionata della tragedia, creando un contrasto grottesco e curioso.
Così Clitennestra, intepretata da Giorgia Tranquilli, è una scialacquatrice ubriaca vestita anni ’30, che barcolla, che dev’essere sorretta dalle serve, ma che balla gioiosa alla notizia (falsa) della morte del figlio Oreste.
Così Oreste stesso – intepretato da Vincenzo Manuel Gismondi – arriva spavaldo in giacca di pelle, jeans e anfibi come un Marlon Brando appena sceso dalla moto, accolto dagli sguardi languidi delle serve che lo rimirano come un divo.
Così Egisto, amante di Clitennestra, usurpatore del trono che fu di Agamennone, diventa un metrosexual vanitoso assai poco macho, che balla ridicolmente ignorando la morte di Clitennestra.
Lo spettacolo, anzi, si chiude proprio con Egisto – ironicamente e perciò perfettamente recitato da Manuel Caprari – che, nel tentativo di distrarre e sfuggire Oreste venuto per ucciderlo racconta una storiella simpatica su un cane che non riesce ad abbaiare. La storiella, non presente chiaramente nè in Sofocle nè in Hofmannsthal, è invece dello scrittore e vignettista statunitense Jules Feiffer, a ulteriore riprova della contaminazione artistica dello spettacolo di Quintili.
Alcune battute di Egisto, erano poesie scritte dallo stesso Manuel Caprari.
Per l’entrata in scena di ciascun personaggio, vi era una canzone annessa e rappresentativa, che imitava il ruolo del coro nella tragedia greca.
E’ stato uno spettacolo nello spettacolo, una parte di vita vera, portata però all’eccesso nella finzione altrettanto vera del teatro. Un rito è stato, alla maniera greca, che, con ironia e simpatia ci ha spinti a riconsiderare e rivedere gli aspetti tragicomici dell’esistenza in fondo sempre uguale di noi stessi. Perché cosa sarebbe il teatro se non anche una riflessione su quel che siamo?
(In foto: “Donna che piange”, P. Picasso)