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Andrea Fazzini, Antigone, Arianna Guzzini, Bacon, Bartleby, Cézanne, Danilo Dolci, Delenze, figurale, figurativo, Fringe Festival, Io non so cominciare, Lauro Rossi, mancanza, Napoli, Parmigiani, rassegna off Fringe Festival E45, Teatro Rebis, zecca
di Arianna Guzzini
Dopo la prima presentazione al Lauro Rossi, lo spettacolo Io non so cominciare della compagnia Teatro Rebis, per la regia di Andrea Fazzini, debutterà il 10 giugno a livello internazionale all’interno della rassegna off del Fringe Festival E45 di Napoli, festival fra i più importanti del mondo teatrale, promotore di artisti e compagnie emergenti che lavorano su drammaturgie nuove ed originali.
Lucia Cattani ci ha già reso partecipi delle sue impressioni nei riguardi di questa produzione, fornendo un’interpretazione sottile e dettagliata, che penetra ottimamente nel profondo delle questioni presentate, a cui non potrei aggiungere null’altro se non la mia posizione dinanzi all’enigma creato da Andrea Fazzini. Poiché tuttavia non esiste una vera e propria risposta a questo mistero, ma essa viene rimandata direttamente allo spettatore, creando così un dibattito aperto sull’urgenza di determinati aspetti della società contemporanea, allora forse sarebbe più utile comprendere qualcosa del processo che ha condotto alla realizzazione di Io non so cominciare.
Durante il festival Non ho tempo e serve tempo del 2008, incentrato sulla figura di Danilo Dolci e diretto da Fazzini, cominciò ad insinuarsi nel regista una sensazione di mancanza imprecisata sempre più pregnante. Senso di mancanza che permea nelle fibre degl’istanti del quotidiano delle ultime generazioni, una percezione di un bisogno che sembra non avere un nome, ma che viene accolto nelle sue fattezze come parte integrante della condizione odierna. Una sorta di immotivato spleen in cui ogni tentativo di comunicazione sembra fallire, direzionato verso un vicolo cieco.
Uno sconvolgimento, il primo impulso che ha dato luogo a questa sensazione, scatenatosi nel momento in cui Fazzini prese coscienza del fatto che una figura come quella di Danilo Dolci è stata letteralmente rimossa dalla nostra conoscenza collettiva. Proprio questo oblio, quest’assenza o mancanza, fa parte del senso profondo della nostra attualità, che dimentica o rende inattuabile nel gioco dei ruoli la lezione di grande senso civico dell’ultimo Dolci sul rapporto fra creatività e sociale: “fate quello che sapete fare voi”, ogni sorta di cambiamento avviene soltanto per mezzo del coinvolgimento, valorizzando la cultura, il contributo della collettività e del singolo. Ad un anno dal festival comincia a prendere forma l’idea di realizzare un lavoro dedicato a questo personaggio, non tramite uno spettacolo descrittivo, ma facendo prender vita ad una visione personale della realtà fondata su una sensazione dinamica ed oscillante. Il teatro può essere anche semplice testimonianza, ma la sola esposizione di un fatto di per sé non crea alcuna sorta d’azione; il riferire una conoscenza solamente non genera nella comunicazione effetti reali e tangibili né sul destinatario, né sul mittente. Si vuol tendere quindi ad un’amplificazione del messaggio attraverso l’atto del trasmettere, ossia del portare, dell’affidare all’altro i propri doni, le proprie conoscenze, sfruttando in maniera consapevole le capacità di cui si è dotati e spingendole fino ai loro limiti più alti possibili.
Cézanne ci ricorda che esistono due modi per sfuggire al figurativo. Il primo è l’astrazione, ma essa, nel suo senso più puro, smaterializza la realtà sino ad arrivare alla perdita del soggetto e di qui anche del reale. La seconda via, invece, ha ancora a che fare con il soggetto, ma non lo riproduce in maniera didascalica, lo svela piuttosto per mezzo della sensazione. “Tutto è in arte specialmente teoria sviluppata ed applicata a contatto con la Natura”, ed in effetti tutto ciò che questo pittore dipingeva appariva sempre ripreso dalla realtà, poiché infatti ogni soggetto era riconoscibile, ma derivava anche da una teoria, cioè da una forma che ha origine da dentro, un primitivo archetipo che risiede nella memoria. Ci ricorda Parmigiani che “la memoria non è ricordo, ma pensiero e il pensiero è fatto di sensazione”.
Come può però il teatro prescindere dal carattere del figurativo? Ciò è possibile solo se si ricorre al figurale, un concetto che Delenze ricava dall’osservazione dei dipinti di Bacon e che si delinea come la percezione di una figura colta nel suo movimento interno, che viene raggiunta attraverso l’isolamento di un’immagine. Antigone, Bartleby, la zecca di Io non so cominciare sono tre enigmi validi anche per il regista stesso. Più che personaggi essi sono figure di personaggi, che non posseggono una vera e propria storia, ma i loro piccoli gesti, anche e soprattutto quelli più minimali, intensificano la loro presenza, la dilatano estendendola al di là dello spazio scenico, in tempi e luoghi non precisati. Questa intensificazione si ha grazie ad una costante ricerca di allontanamento dell’attore, la quale induce lo spettatore ad avvicinarsi, ma privandosi del raziocinio, facendosi trasportare innanzitutto da questa sensazione di mancanza. Quella dell’attore è una voce flebile, un sussurro che spinge l’orecchio fino alla bocca, e l’allontanarsi diviene allora un chiamare a sé. Ci si ritrova intrappolati in “una notte che cade in continuazione, senza cadere mai a terra” così che è lo spettatore che dà la sua visione col suo movimento in avanti. Danilo Dolci però non scompare mai. Egli è sempre presente in questo viaggio con le sue parole, come uno spirito guida che dà conforto, che crea stimoli verso una via d’uscita, verso una reazione alla dilatazione di questa angosciosa sensazione che resta sospesa per tutta la durata dello spettacolo.
Dalla figura caduta nell’oblio di Dolci si passa così ad una visione contemporanea della realtà in quanto, per dirlo con le parole di Parmigiani, “è contemporaneo tutto ciò che per noi è urgente e vivo in noi ora” e “non ci sono linee, c’è solo una linea che si chiama visione dell’arte. Una linea che identifica la sua stessa possibilità di esistenza nell’immaginazione e che considera vitale nel lavoro l’eco del tragico, come se fosse la sola mano sulla quale possa posarsi la felicità di un’opera”.
foto di Valentina Saluto