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Ammaniti, Arianna Guzzini, banda della Magliana, Camilleri, Carlotto, Carofiglio, cinque maggio, Cocaina, crimine, De Cataldo, Diario di un Giudice, Giancarlo De Cataldo, indagine, Libanese, Lucarelli, Macerata Racconta, magistrato, noir, proibizionismo, Romanzo criminale, Teatro Lauro Rossi
Quando il noir, l’indagine e il crimine non sono più un semplice intrattenimento, quando i tratti del macabro non hanno nulla a che fare con la morbosità di dettagliate e minuziose autopsie degne dei migliori splatter, quando il male non è più follia e raptus, ma progettualità, organizzazione fredda e calibrata, precisione del movimento, allora ci si accorge di come questo genere possegga un’enorme potenzialità. Esso non è più semplice racconto, i suoi personaggi sono integrati in una società ben precisa, ne mutano e ne plasmano gli andamenti e i mutamenti, riflettono in sé la realtà del paese nel quale sono insediati. Non stupisce quindi il grande successo dell’ultima generazione di scrittori italiani di noir e dintorni: basta pesare a Camilleri, Lucarelli, Ammaniti, per rendersi conto di quanto i loro racconti di crimini ci parlino del paese Italia. Ed ecco qua che spunta, immancabile all’appello, un altro grande nome: Giancarlo De Cataldo, ospite lo scorso 5 maggio a Macerata Racconta. Magistrato attratto magneticamente dal fascino del criminale, l’autore del noto Romanzo Criminale fu non a caso giudice a latere nella Corte d’Assise, durante il corso del processo alla famigerata banda della Magliana. Studiandone ogni dettaglio, viene folgorato dall’epicità dei suoi componenti, li fa rinascere personaggi. Da buon amante di Balzac tesse le trame di ciascun carattere umano, li reinserisce uno ad uno nel reale per giungere al culmine di una folgorante detonazione: è la visione del mondo che l’autore possiede, che esplode una volta accesa la miccia di questi personaggi. Ogni destino individuale in fondo non è che un rimbalzo all’interno della Storia e solo questa è motivazione sufficiente a sfatare certi luoghi comuni che ruotano attorno a questo romanzo, che non è affatto esaltazione del crimine, poiché affermare che un carattere sia epico non significa necessariamente innalzarlo ad eroico. Eppure, De Cataldo stesso ricorda, facendo propria l’espressione di Flaubert, “il Libanese sono io”, poiché ogni personaggio non può che riflettere l’autore che l’ha creato. Allora ci si domanda: qual è la distanza che intercorre fra un
giudice ed il suo imputato? L’autore risponde ancora una volta con una citazione, ma questa volta di un magistrato italiano. Troisi scrisse il Diario di un Giudice, interrogandosi proprio su quelli che sono i meccanismi psicologici di un giudice, arrivando ad affermare che, nonostante un magistrato debba mantenersi costantemente freddo e pacato, onde evitare sia una condanna eccessivamente perbenista, sia una condanna esemplare, egli è strettamente legato all’imputato mediante una sottile linea di sofferenza, un’inquietudine che perviene nel momento in cui ci si rende conto di avere nelle le mani il destino di qualcuno. Inoltre vien da pensare che ad un magistrato, come anche ad un “grande” criminale, sia richiesta la stessa freddezza, la stessa forza d’animo che porta alla repressione di qualsiasi impulso, di ogni sostrato di personalità che possa emergere e mettere a repentaglio l’esito finale dell’azione che si vorrebbe concludere. Si richiede loro di disumanizzarsi fino all’eccesso, di rendersi “uomini senza qualità”. Queste riflessioni emergono, però, nel momento in cui ci si confronta con un certo tipo di criminale, inserito in un contesto macchinoso che ha delle logiche crude, che ha un certo regolamento societario, una sua calibrata astuzia nell’agire, una ben precisa progettualità. Si è dinanzi un tipo psicologico collocato in una determinata realtà storica, spinto non soltanto dall’attrattiva del potere e del denaro, ma anche da motivazioni sociologiche che in un certo senso l’hanno reso un predestinato. Eravamo negli anni ’70 con la banda della Magliana e cosa accade se ci spostiamo ai giorni nostri? Il cattivo della situazione può ancora suscitare quel senso di repellenza e fascino dovuto alla sfida implicitamente lanciataci di addentrarci nelle sue logiche più profonde? La risposta di De Cataldo è negativa. I cattivi hanno perso il loro charme, poiché non c’è più quella stessa progettualità che era invece presente in Romanzo Criminale. Quelli di oggi sono criminali liquidi in un mondo liquido, sono per lo più molto ignoranti. In questo quadro d’insieme s’inserisce il nuovo libro del magistrato, Cocaina, tre racconti di tre autori diversi, scritti autonomamente ( De Cataldo, Carofiglio, Carlotto). Lo scenario odierno legato alla cocaina sembra aver perso ogni connotazione epica e al contempo non risalta nemmeno alcuna sorta di antieroismo. Non c’è alcun pathos, alcuna motivazione logica o illogica, ma solo un malinconico abbandono, un desolato rilasciamento. Nessuna classe sociale è esente dal suo utilizzo, si va dalla moglie del ricco imprenditore, al camionista e all’ortofrutticolo: si è dinanzi un fenomeno trasversale. Biancaneve si muove cauta con finta castità, s’insinua silenziosa nelle crepe serpeggianti, si diffonde indisturbata come la sifilide fra amanti che si passano amore in una catena infinita. Dal piccolo spaccio in un autogrill dell’Italia del nord-est s’infila nei nasi di camionisti sfiniti dai lunghi viaggi, come nel racconto intimista di Carlotto. Parte dal Messico e fa il giro del mondo, non c’è luogo che essa non visiti, il suo ruolo è basilare nel periodo di crisi. Dal pubblico allora risuona naturale la domanda: e il proibizionismo? Che ruolo ha? De Cataldo è sincero, spoglio di finti ed inutili moralismi. Il proibizionismo si è dimostrato una tattica perdente. Il traffico di droga persiste e certamente non cesserà mai completamente, poiché le richieste non diminuiscono, ma al contrario sono incitate dal senso del proibito. Esistono inoltre numerose sostanze che sono nocive, se pur legali: “Se fumo un toscanello, so che mi fa male, ma il fatto che posso comprarlo in tabaccheria fa sì che non mi ritrovi a diventare un borseggiatore per potermelo permettere”. Se si legalizzassero anche queste sostanze probabilmente all’inizio ci sarebbe un boom di consumi, ma in seguito i consumatori diminuirebbero o resterebbero ad un livello simile a quello attuale (giustamente ci tiene a precisare, però, che essendo questa la legge si è tenuti a rispettarla senza sconti). Dunque anziché incentivare la criminalità, questa sarebbe un’opzione da prendere in considerazione, l’unico motivo per cui non è stata attuata sta nel fatto che non ne sono stati sperimentati gli esiti, ma d’altro canto sono evidenti quelli inconcludenti del proibizionismo. E allora, perché no?