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galimberti

di Camilla Domenella

Il cielo non poteva di certo dirsi vuoto, così ingombro di nuvole com’era. Sarebbe stata una follia mancare un appuntamento importante come questo, un vero sberleffo al sacro.
Chissà che non sia una moderna incarnazione di Socrate.

Giovedì scorso, sotto il cielo dipinto del soffitto del Teatro della Filarmonica, la sala gremita accoglieva Umberto Galimberti.
Il filosofo monzese, ospite della rassegna “Macerata racconta”, è intervenuto per la presentazione del suo nuovo libro “Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto”.
Galimberti, solo su un palco allestito a mo’ di studiolo, ha esposto al pubblico una riflessione affascinante ed argomentata del suo pensiero sulle origini della religione, del sacro, del Cristianesimo, della filosofia.

La platea, eterogenea, avida e curiosa, applaude già le prime parole del filosofo, in segno di attento entusiasmo confidenziale.
“Il sacro è la condizione di follia che ci abita”, introduce Galimberti, “è l’insieme di miti e riti che frena l’angoscia dell’imprevedibile”. La ragione non sopporta questa imprevedibilità, perciò si dà delle regole, prime fra tutte il principio di non contraddizione e quello d’identità. “Per il principio d’identità, un bicchiere è un bicchiere. Ma se io scaglio un bicchiere sulla platea, esso diventa un’ arma contundente”, spiega ancora. “Le regole della ragione sono utili per capirci”, non sono vere in assoluto.
(Gli iper-razionalisti in sala si agitano appena sulla sedia. Altri cominciano a diffidare dei bicchieri.)
Il sacro è l’indifferenziato, dove tutto si contamina: è il regno della follia. Ma quand’è che siamo folli? Nel sogno, nel quale siamo contemporaneamente protagonisti e spettatori, in cui l’effetto precede la causa, in cui il tempo, sotto ogni sua forma, non esiste; siamo folli appena ci svegliamo, quando la nostra coscienza è ancora intorpidita, e siamo costretti ad attaccarci ai gesti meccanici delle abitudini; sono folli i bambini, fino ai 6 anni, poiché per loro ogni cosa è nuova e senza ruolo; sono folli i poeti, che filano i significati, che, come Leopardi, interpellano la luna – “Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi che fai […]” – ; gli artisti sono folli; “i folli siamo noi stessi senza più il controllo razionale”.
(Qualcuno riprende ad agitarsi sulla sedia.)
L’uomo ha quindi espulso da sé questa condizione di follia, attribuendola invece agli dei. “Gli dei greci cambiano forma e aspetto , contravvenendo allo stesso principio d’identità”, conferma il filosofo. Galimberti ricorda poi Cartesio, il quale affermava che neppure Dio può essere sottoposto al principio d’identità, altrimenti non sarebbe Dio, e Kierkegaard, secondo cui “Dio è al di là dell’etica”. Dio, allora, è un folle: “è al di là della differenza tra il bene e il male, il giusto e l’ ingiusto, il vero e il falso”.
(I seguaci dell’ortodossia biblica alzano il sopracciglio, interdetti.)

In questo panorama, s’innesta la storia cristiana. La cultura occidentale coincide inevitabilmente con quella cristiana. “Tutti in Occidente sono cristiani. Anche gli atei sono cristiani, in Occidente!”.
A questa provocazione di Galimberti, qualcuno sgrana gli occhi, non capacitandosi di una tale blasfemia laica.
Ma il filosofo incalza, audace e spregiudicato: “la storia cristiana è la creazione del mondo che sostituisce alla creazione di Dio quella dell’uomo”. Eccolo, allora, l’obiettivo polemico, il perno di riflessione critica attorno al quale ruotano le possibili spiegazioni o complicazioni di una “religione vuota”! Il Cristianesimo è l’unica religione monoteista nella quale Dio si è incarnato, si è fatto uomo.
Per Galimberti, questo è il principio dell’ateismo: “se Dio diventa uomo, gli uomini diventeranno Dio”. Alla creazione divina, è sostituita quella umana. Il Dio incarnato è il Dio-uomo, che si palesa, si manifesta, si fa carne, in evidente contrasto con il dio ebraico o islamico, di cui non si può neppure pronunciare il nome.
Il Dio cristiano incarnato muore in remissione dei nostri peccati, dimostrandoci che solo Lui può redimerci, imponendo agli uomini un debito enorme ed infinito. “L’uomo è colpevole e non può neppure riscattarsi!”, sbotta Galimberti.
La platea sembra illuminarsi e scaldarsi insieme con l’oratore.
Il Dio incarnato che muore in croce è anche il Dio del dolore. Nel Cristianesimo, “il dolore è un evento carico di senso in vista della Salvezza, poiché riscatta e redime”. Quanti più dolori sopporti in vita, tanto più grande sarà la tua ricompensa nell’eternità.
Galimberti non nasconde poi un certa preferenza per l’opposta concezione, quella greca. Nell’antichità, il dolore, così come la morte, non era il banco di prova della fede, né il peso insostenibile dell’esistenza. Era invece un evento naturale, e in quanto tale, docilmente accettato. Galimberti ricorda che in Omero, come anche in Platone, non si trova mai la parola “uomo”, ma “mortale”, a indicare la dimensione “ordinaria” della morte e della sofferenza fisica, dimensione che Galimberti esemplifica così: “sei ammalato perché devi morire, non devi morire perché sei ammalato.”
Le teste dai volti pensosi degli astanti oscillano avanti e indietro in segno d’assenso.

Con entusiasmo e ironia, Galimberti recita poi l’episodio della morte di Socrate.
“Socrate, rifiutando la proposta di fuga offertagli da Fedone, ribadisce ai suoi: – Vi ho insegnato a rispettare le leggi, qualsiasi esse siano; quel che dovevo dire, l’ho detto; ora datemi la cicuta, e facciamola finita. –
Socrate prese la cicuta,
s’irrigidì
e morì.
Oh, gente seria!”

Galimberti continua e analizza la trasformazione del concetto di Tempo.
Il Tempo greco era ciclico, si basava cioè sul ciclo della Natura, e quanti più cicli un uomo aveva vissuto, tanto più era considerato saggio. Gli anziani quindi erano tenuti in alta considerazione ed insegnavano ai più giovani.
Il Tempo cristiano è invece un “tempo escatologico”, perché si realizza alla fine quello che era stato annunciato all’inizio, e “gravido di senso”. Il Tempo è una linea retta, e dopo la morte terrena, è promessa (se non garantita) l’immortalità nella vita ultraterrena. Questa è la chiave del grande successo del Cristianesimo! La speranza futura! La successione passato-presente-futuro è infatti un’allegoria rispettivamente di peccato-redenzione-salvezza.
La concezione del tempo lineare è quindi di matrice cristiana. Struttura, questa, da cui non si affranca neppure la scienza: “anche la scienza è cristiana: il suo passato è ignoranza, il suo presente è ricerca, il futuro è progresso.”
Ecco: il futuro è sempre idealmente il luogo della speranza, del meglio, della soluzione e risoluzione.
Ma spostiamo questo futuro al presente, alle prospettive di oggi, ai giovani di adesso, uomini in avvenire. Il disorientamento è totale. Quello che emerge è la domanda nietzscheana “a che scopo?”: a che scopo studiare, sapere, essere avidi e insaziabili di conoscenza? Per noi stessi, certo… ma se non ci bastasse? Se volessimo trascendere noi stessi? Cominciare a costruire un futuro che sia solo nostro, e costruircelo da soli, o almeno senza qualcuno o qualcosa che ci ostacoli? Discorso di provocatoria retorica giovanile, questo; senza dubbio. Ma forse non ancora sufficientemente banale e lapalissiano.
Galimberti rilancia la sua interpretazione del “Dio è morto” di Nietzsche. Dio sarebbe morto perché l’uomo non risponde più al mondo da Lui creato, ma lo crea egli stesso. Dacché Dio s’è fatto uomo, l’uomo si è sentito legittimato alla creazione, negandone l’esclusiva al divino.
E se per Nietzsche l’oltre-uomo nasceva nel momento in cui accettava il dolore della morte di Dio, noi vorremmo, con apparente maggior modestia, sopportare il peso del nostro futuro.

Mi perdonerà Galimberti, se allora altero miseramente la sua chiusa, e invece di chiedermi: “sopravviverà l’Occidente alla fine del Cristianesimo? Sopravviverà il Cristianesimo alla fine dell’Occidente?”, mi domando soltanto se, dopo il “tramonto dell’Occidente”, non sia possibile una nuova alba.

(Foto di Roberto Cherubini)

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