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Camilla Domenella, danza, danza contemporanea, De-Structure, destrutturare, lara carelli, sistema, struttura, Teatro Rebis
di Camilla Domenella
Il “bip” della televisione che s’accende al comando automatico della pressione esercitata dal dito sul pulsante. La strada del tragitto casa-lavoro che ogni giorno guardiamo senza vedere. La distrazione puntuale con la quale inchiaviamo l’auto una volta parcheggiata: la stessa distrazione che dopo dieci passi ci fa bloccare sul marciapiede attanagliati dal dubbio del “l’ho chiusa la macchina?”.
Sono questi gli automatismi che la coreografa Lara Carelli indaga e denuncia attraverso il linguaggio universale della danza.
Lo scorso sabato 27 Aprile, si è tenuto, al Teatro Rebis di Villa Potenza, il secondo Studio della trilogia “De-structure”, progetto coreografico di danza contemporanea che pone l’accento proprio sulla necessità di uscire dal Sistema, da quello che Lara Carelli chiama “Struttura”.
La Struttura è ciò che ci ingloba, ciò che opprime e sopprime i nostri slanci di affermazione individuale, ciò che altera la nostra volontà appiattendoci su quella generale. Come asserisce la stessa coreografa, “eri uno… diventi nessuno”. “De-Structure” mira a rappresentare e scardinare questo sistema.
La Destrutturazione passa perciò attraverso la danza e gli spazi concreti che delimitano il balletto: nel primo Studio i ballerini danzavano canonicamente sul palco, in questo secondo invece invadono anche lo spazio della platea.
Sette degli otto danzatori sono completamente vestiti di nero, compreso il viso, a indicare l’anonimato che la Struttura impone. Sul palco, una grande tela, la sola illuminata, ricorda lo schermo di un televisore.
I ballerini, danzando, risalgono dalla platea al palco, come ombre scure, come presenze fisiche ma assenze spirituali. Solo uno (unico uomo del corpo di ballo ), non vestito di nero, è il fuori-Sistema. Le altre ballerine sono ombre incatenate tra loro che si stagliano sul “monitor” del palco. Una dopo l’altra, e l’una con l’altra, si liberano dalle catene, si scoprono il volto, in un gioco di corpi scenico e di tecnica artistica ammirevole.
Numerosi i passi a due; rari, invece, i pezzi in cui gli otto ballerini eseguivano tutti insieme gli stessi passi. E’ mancato, volutamente, il momento corale, e, per così dire, olistico: gli otto non erano un corpo unico ed unito, ma l’intreccio di singole parti. A ciascun danzatore era affidata una coreografia diversa; ognuno interagiva con l’altro, senza però creare un Tutto unitario danzante.
L’effetto sul pubblico era disorientante: lo sguardo non riusciva a decidersi su quali movimenti seguire.
Se lo spettacolo non fosse stato anticipato da una breve spiegazione della stessa Lara Carelli, la frammentarietà della scena avrebbe forse intaccato il contenuto che s’intendeva trasmettere.
Originale e interessante comunque l’idea di offrire ai ballerini anche lo spazio dedicato alla platea. Il pubblico si vedeva costretto a partecipare, a respirare insieme ai danzatori che aveva di fronte, ad attaccarsi allo schienale della sedia per evitare d’incrociare un por de bras lungo e commovente.
Trattare un tema come quello della DeStrutturazione con un linguaggio esclusivamente corporeo e vivo quale è quello della danza, è un audace tentativo. Il Sistema, oggi, è simboleggiato in primis dalle mille tecnologie che quotidianamente utilizziamo: la tivù accesa in sala che fa da sottofondo alle nostre conversazioni, il cellulare multitasking che ci rende sempre pronti e raggiungibili, il GPS, il tablet, il computer, che mi ha permesso di scrivere quel che ho scritto e a voi di leggere quel che state leggendo.
Il problema – se ve n’è uno – è il nostro passivo approccio a queste tecnologie, non la loro esistenza efficace. Rappresentare una tale dissonanza attraverso la danza, è molto meno banale di quel che sembra. La danza è qualcosa di viscerale e atavico; il computer no, è nuovo ed esterno.
Appare evidente, allora, la contrapposizione tra il corpo umano animato e il corpo inanimato e freddo.
Questa però è la contrapposizione attuale, che non significa inevitabile. Parlare ancora di “Sistema” e “Struttura” può essere utile nella misura in cui rappresenta la prima tappa di un percorso di sintesi costruttiva. La denuncia degli automatismi passivi cui siamo soggetti deve essere una presa di coscienza, iniziale però, non assoluta e fine a se stessa.
Se così non fosse, si scadrebbe nella solita retorica un po’ anarchica, nostalgica, idealizzata, che oggi va tanto di moda, e che però, guarda caso, passa attraverso i mezzi che quotidianamente non disdegniamo di usare. La critica al Sistema rischia di essere una lamentela sterile, una pars destruens cui manca la rispettiva construens. Parlarne attraverso la danza può essere un modo, forse efficace, di non parlarne più e cercare qualcosa di nuovo.
La vera sfida quindi, è fondare una nuova Struttura, in cui la bellezza della danza non sia legittimata da regole diverse da quelle che essa stessa si dà, e che essa stessa, infine, de-struttura.
(In foto, Studio 2 di De-structure)