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di Eleonora Tamburrini
Si è conclusa sabato 20 aprile al Teatro Rebis di Villa Potenza la rassegna “Defigura” a cura di Andrea Fazzini con il supporto di Adam Accademia: lo ha fatto con il concerto di un ensemble di recente formazione e composizione atipica, tenendo fede al titolo del ciclo di eventi che preannunciava un’idea di arte da scomporre, indagare e ricomporre secondo visioni inconsuete. Lo Spring Trio raccoglie infatti strumenti e musicisti di tradizione diversa e variegata, e prima dell’inizio dello spettacolo si stenta a immaginare per quali strade e per quali miscele si uniranno un violoncello, un’arpa classica e un folto apparato di tamburi a cornice.
A celebrare l’esperimento, il rito, ci sono Angelo Casagrande, polistrumentista e già fondatore della celebre band etnica Ogam, qui in veste di violoncellista e di autore della maggior parte dei brani che verranno eseguiti; Francesco Savoretti alle percussioni arabe, con tutto il bagaglio di esperienze maturate in Italia e in giro per il mondo con il Luca Ciarla 4’et; Monica Micheli, che sostituisce all’arpa la pure bravissima Lucia Galli, e ha all’attivo una formazione classica e collaborazioni con numerose orchestre. A colpire sono proprio le costellazioni di formazioni e lavori che stanno intorno a ognuna di queste voci e che appaiono qui irriducibili; è questo portare in dote anni di studio e di viaggio su vie distanti e a prima vista incongrue. L’esito è una trama musicale luminosa, di quelle che si avvertono possibili e poi si realizzano per un felice miscuglio di bravura tecnica e intuizione.
Il trio inizia a suonare senza annunci e introduzioni: il modo migliore di spiegarsi è far affiorare le atmosfere leggendarie dei Monti Azzurri e della Sibilla di alcuni brani degli Ogam. Si imposta il registro della narrazione, con i due strumenti classici che armonizzati dialogano con l’arco multiforme delle percussioni. Segue “Il soggiorno”: Monica Micheli si intravede attraverso la tramatura fitta delle corde, il violoncello si libra e il repertorio si annuncia per quello che è: il lasciapassare per un viaggio dalla meta incerta e mutevole, un biglietto per la stratosfera. Destinazione sicura per “The colors of the Middle East”: su tutto dominano le sonorità persiane del daf, che tra le mani di Francesco Savoretti rivela la voce fonda di caverna e lo scrosciare dei mille anelli che lo abitano. Segue “L’illuminazione” e ci conduce nei pascoli sconfinati della Mongolia, nel verde incontenibile, tra l’ondeggiare delle mandrie di yak; rivive il lungo viaggio degli Ogam sugli itinerari di Matteo Ricci e questa musica appare come unica alternativa al silenzio di quei luoghi. Nel brano che segue, “Musica” di Giovanni Di Clemente, si dispiega il violoncello, mentre dalle percussioni si levano le suggestioni più diverse, il fruscio di bracciali di semi e di collane di unghie di capra, i chimes cristallini, il respiro acquoso dell’udu. In “Spring” (difficile dire in che direzione si sia mossa l’onomastica), il trio raggiunge le sue vette più ritmate: i tamburi si lanciano e si increspano in simbiosi col violoncello, mentre l’arpa disegna un fraseggio densissimo. Non mancano riarrangiamenti della tradizione orientale ma anche inglese, e di autori contemporanei; sorprende la scelta di “Questa notte” di Ludovico Einaudi che perde in questa veste di linearità (e languore) per guadagnare in ricchezza e movimento: l’arpa conduce, il violoncello si può anche pizzicare, i piatti vibrano al fruscio di spazzole sottili. Prima del bis la conclusione è affidata a “Hong Kong tango”, ultima tappa in cui le sonorità sudamericane incontrano l’ispirazione orientale, a delineare l’immagine di due ballerini in cima a un grattacielo inarrivabile da metropoli orientale.
Finisce il concerto e tra gli applausi del pubblico si dissolve il buio da platea, sul palco luci a giorno esauriscono l’ocra denso che sembrava propagarsi dal legno e dalla pelle degli strumenti. Con Francesco Savoretti mi inoltro nella selva delle percussioni: djembe, bongo, darbouka, riq, bodhran, cajon, me li ripeto come formule questi nomi, e mentre azzardo un rollio di dita sulle superfici più diverse, ipotizzo ancora traiettorie, spazi, tutti i suoni venuti da un altrove che il concerto ha saputo rigenerare. C’è in ognuno di questi strumenti tanta strada percorsa fuori e una trama di storie locali: ad esempio le percussioni vengono da luoghi remoti di tutto il mondo, ma anche da piccole aziende italiane che continuano imperterrite a produrle e farle circolare; così come in una sera l’eco lontana di tanti cammini ha trovato un temporaneo crocevia al Rebis, piccolo teatro ritagliato con ostinazione e messo al riparo dalla banalità grazie a un’ottima stagione di prosa, danza e musica come quella appena trascorsa.
Musica etnica si potrebbe definire quella dello Spring, nel senso più ampio di “musica di viaggio”, dove il singolo luogo d’origine, la tradizione raccolta, trasfigurano in un setaccio raffinatissimo che ne fa altro, ogni volta luogo dei luoghi, astrazione, stratosfera appunto. Alla fine ripieghiamo nelle quinte, mentre ogni strumento sparisce nella sua custodia, un involucro nero inghiotte il violoncello, l’arpa scivola di spalla in spalla giù dal palco. Possiamo dire di aver respirato questa sera l’aria in cui il viaggio si consuma.
Lo Spring Trio al Teatro Rebis (Villa Potenza, Macerata), foto di Lucia Persichini