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di Guido Garufi

Ahi serva Italia, di dolore ostello
nave senza nocchiero in gran tempesta
non donna di provincie ma bordello
(Dante Alighieri)

Con orrore la poesia
rifiuta le glosse degli scoliasti
(Eugenio Montale)

Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita
(Sandro Penna)

Rispondo volentieri all’invito de L’Adamo, parlare della poesia, della sua funzione oggi, soprattutto oggi vorrei aggiungere, ben oltre l’occasione di eventuali ricorrenze, onomastici, compleanni, Inni nazionali e via sbadigliando.
Mentre scrivo mi viene mente ciò che Petrarca sosteneva a proposito della filosofia: “povera e nuda vai filosofia”. Direi, allora, che a maggior ragione questo verso-emblema debba adattarsi (anche qui da sempre) alla poesia, indubbiamente più povera e probabilmente più “nuda” della filosofia.
Ma è questa nudità, è questa estrema povertà ed essenzialità del testo poetico, tuttavia, a rendere la poesia un medium potente ed efficace, sebbene -non da oggi- letta da pochi tuttavia, paradossalmente, amata da tutti. E desidero aggiungere, letta da pochi e “scritta” da moltissimi.
La questione è piuttosto datata: molti scrivono, tantissimi, qualcuno, aggiunge, troppi, ma poi, la cosiddetta “qualità” è un’altra cosa e il discorso potrebbe farsi altro e toccherebbe una diversa materia che esula da questa mia conversazione preliminare.

Tuttavia l’osservazione, anzi il centro di questa argomentazione, non è “picciola” cosa. Anzi, è rilevante e spero fondante. Ritengo sia autenticamente un “valore” e sociologicamente apprezzabile il fatto che tutti scrivano, bene o male, non importa, ma che vi sia una “massa critica” che ha scelto, ben oltre i risultati, di lasciare qualche segno su un foglio e magari pubblicarlo: la “dinamica” di cui parlo è già di per sé, a mio avviso, un atto poetico.
Appare altrettanto ovvio che ogni scrittore desideri raggiungere il maggior numero di lettori possibile. È un desiderio arcaico, giustificatissimo e condivisibile. Non è forse il buon Cavalcanti che “augura” alla sua ballata di poter “gir in fra la gente”? Non si cura il grande Guido che il suo testo raggiunga il cuore del lettore? La questione è rimasta inalterata, nel tempo, ha attraversato tutti i secoli e rimane tuttora attualissima.
Dunque, al fondo, c’è un desiderio pre-testuale da parte dell’autore, c’è un desiderio preliminare che anticipa la stessa poesia e la sua “compilazione” sulla pagina.
Cosa sia mai questo desiderio è cosa altrettanto nota. La stessa parola ce lo dice: de-siderum. Tirare giù qualcosa dagli astri, dall’alto, dal cielo, “acchiappare”, prendere, immaginare guardando altrove, di poter afferrare qualcosa che appunto c’è, ma non si tocca immediatamente. Utilizzare, in definitiva, la “lontananza”, o anche, se si legge attentamente quel grande laboratorio linguistico e filosofico che è lo Zibaldone (ma anche i Pensieri) del nostro Giacomo, ribaltare l’ottica: per un poeta (sostiene Leopardi), osservare una torre che ti è vicina e che tu vedi realisticamente, non è ciò che “serve”. Il poeta “immaginerà” una seconda torre, “invisibile”, dietro la prima e su quella “scriverà”. Insomma la “realtà” o il mondo degli “oggetti”, sono pretesti o Occasioni (ancora Montale) per scavalcarli, oltre-passarli, dando ad essi, dunque, una funzione mediatica e, quindi potenzialmente metaforica. Ma tutto questo è possibile poiché il desiderio di cui parliamo, la fenomenologia di questa “passione” rimanda ad un secondo “sinonimo” (latamente) sul quale mi soffermo: l’emozione. Termine che ci dice molto o forse tutto. Anche qui la radice latina offre una dritta. E-movere: mi muovo da, mi sposto da un punto verso un altro, entro in movimento. Ecco la fase pre-testuale, quella emotiva, che è la condizione imprescindibile, perché senza di questa non vi è alcuna autorizzazione alla scrittura. Ben altro è utile, anzi indispensabile, per produrla, ovvero per tradurre in poesia in testo questo “movimento emotivo”. Ed è il punto o il versante più difficile da spiegare. Lo scriba attrezzato deve essere non solo il creatore di versi ma anche il lettore di una grande biblioteca, dei libri degli altri, delle voci degli altri, dei ritmi e dei suoni degli altri (la musicalità, la fonè e l’accordo timbrico-ritmico rivestono una importanza esiziale, se è vero, come è accertato, che il primo “senso” che il bimbo “attiva” nel ventre materno è l’ascolto del doppio tono cardiaco, di una ciclicità di base dalla quale si produrranno varianti). Solo così entrerà in sintonia con quella grande orchestra che è la letteratura in generale e la poesia più in particolare. Da questa biblioteca si “genera” il poeta, così come Leopardi non nasce a Recanati ma “esce” o “nasce” dalla biblioteca del padre Monaldo. E cosa rimane oggi della biblioteca di Monaldo, o anche, l’attuale biblioteca, la “nostra” biblioteca, è la stessa di Monaldo? Probabilmente no perché quella si è trasformata in una “catalogazione” più vasta e articolata, simile un po’ alla biblioteca di Alessandria prima del grande incendio. Questa biblioteca è Internet, forziere di fonti, cassaforte universale, a volte vero e proprio labirinto borgesiano nel quale è possibile inoltrarsi per cercare altre voci. E quelle che, per Baudelaire erano “corrispondenze”, possono oggi diventare altre corrispondenze, altre occasioni, altri testi da cui attingere emozioni. Consiglio a tutti di leggere il discorso di Montale quando fu insignito del premio Nobel, un discorso memorabile sul futuro e sul ruolo della poesia, argomenti e riflessioni che chi scrive dovrebbe bene tenere a mente. Vale qui la pena di offrire un segmento di quel memorabile testo: “ho scritto poesie e per questo sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, critico letterario… In ogni modo sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli più nobili… il tempo si fa più veloce, opere che pochi anni fa sembravano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa spasmodico bisogno dell’attuale e dell’immediato… Si potrebbero moltiplicare le domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati” Un poeta, Montale, apparentemente nichilista, invece fortemente propositivo, nella potenziale inclinazione all’introversione e al malinteso “male di vivere”. Nella mia vita ne ho conosciuti tanti di poeti, di grandissimi e non, anche quando non c’era Internet o il cellulare, per cui le corrispondenze erano cartacee, e faceva magari un bell’effetto tenere in mano una lettera di Zanzotto o di Montale, di Sereni o Luzi, interloquire con Fortini o con De Libero, parlare con Bigongiari e tanti altri ancora. Era davvero poetica quell’attesa, scandita da tempi più lunghi degli attuali, aprire la lettera e a volte decifrare calligrafie davvero difficili. Non dico poi al telefono, quello di una volta, parlare con Vittorio Sereni era addirittura imbarazzante. Lunghissimi silenzi che facevano sembrare interrotta la comunicazione. Insomma, da quel poco che vado scrivendo, si capirà che vengo da una generazione un po’ più lenta di chi mi legge, ma certamente molto interna al testo e alle sue ragioni, persino sociali, persino politiche (fa piacere, ed è certamente verificabile, come le riviste letterarie degli anni Settanta e Ottanta fossero piuttosto impegnative: persino una recensione era un piccolo saggio, non una frettolosa nota giornalistica o una meteora biografica che dice tutto e nulla, o peggio ancora venti righe di bla-bla e la solita foto. Non mancava, mai, la “differenza” di metodologia critica, di “scuola” e le forti “stroncature”, chiamate anche “schermaglie”). E qui entrano le Marche, la nostra regione che ho calpestato, nel senso critico con l’amico Remo Pagnanelli, io a partire dalla metà degli anni 70 e lui alla fine di quel decennio, insieme a me, prima del suo addio nel 1987. Si era creata in quegli anni una rete diversa da quella di ora, pullulavano i convegni, c’erano trasmissioni delle radio locali e alla terza rete di Ancona, la nascita delle riviste, gli incontri di Urbino grazie all’amico Umberto Piersanti. Uno in particolare dove ci prendemmo a calci e pugni con critici venuti da ogni parte d’Italia per parlare di un argomento che è ancora nostro e vostro: del pubblicare poesia oggi in Italia. Non tutti la pensavano allo stesso modo. Si iniziò con qualche riferimento accademico e letterario, volevamo fare un po’ gli snob, tutti, ma alla fine si venne alle mani perché le parole non bastavano più. Ritengo quella scazzottata una grande poesia, laddove lo scriba cessa di mettere la penna sul foglio e scende in campo, o meglio, con Pasolini, getta il corpo sulla piazza. Nonostante questi ricordi che possono sembrare semplici memorie o ricordanza c’è un filo che mi ha sempre legato e mi collega alla tradizione nella quale mi riconosco, l’idea che la poesia non sia solo un esercizio valido in sé, ma debba essere, contemporaneamente e necessariamente, una provocazione esplicita nei confronti degli altri, della stessa società. Ogni poeta è un poeta civile e sociale, ed essere poeti con questa funzione non significa necessariamente o solamente parlare di ciò che sembra emergere nel dibattito contemporaneo, che so, l’eutanasia, la guerra, un bombardamento, la sinistra o la destra. Mi sembra anzi che “utilizzare” una notizia che funziona per far funzionare un testo spesso deprecabile da un punto di vista stilistico e formale al quale viene data dignità solo perché “cavalca” una notizia sia cosa e strategia orrida e blasfema. Mi pare fosse il ‘90 quando invitai Mario Luzi a Macerata. Il teatro Lauro Rossi era strapieno e convocai in quell’occasione la maggior parte dei poeti marchigiani. Mario mi aveva dato un importantissimo inedito poi stampato per Garzanti, un suo discorso sulla funzione della poesia. Il titolo era e rimane emblematico: Le parole agoniche della poesia. Dove per agoniche non si deve intendere le parole terminali o malate, ma, anzi, agonistiche e antagonistiche (così voglio ricordare che la rivista che fondai nel 1981 con Remo, “Verso”, aveva una doppia lettura: verso come il verso del testo poetico, ma anche “versus” che in latino significa “contro”) Da qui si vede, un po’, come la penso, e come ritengo che la stessa poesia possa assolvere vari compiti, da quello apparentemente più estetico e introverso, come può sembrare quella del mio amico di sempre de Signoribus, a quelle più frontali o “politiche” di d’Elia. Entrambi in modi diversi dicono del male della storia, dicono dei vinti, dicono e scrivono degli offesi dalla vita, parlano degli esiliati, sia come soggetto di massa socialmente intesa, sia come voce singola o unica, apparentemente personale, strozzata o impotente. Due voci diverse con un unico obiettivo, rivolte a quel lettore che sappia sentire e riflettere. Perché una rivoluzione sentimentale, una educazione sentimentale, nasce da qualsiasi verso purché questo colpisca il cuore. Oggi ricevo molti testi da più giovani autori, molto più giovani di me, tramite e-mail, o anche più semplicemente perché hanno avuto l’indirizzo da altri. E ogni volta, in qualche modo, ripenso a quelle lettere di carta che ricevevo anch’io da giovane. E vi assicuro che non vi è alcuna differenza se non la sconsolata e irritata certezza che ci sia un sistema che abbia appiattito ogni voce, l’abbia illusa e l’abbia delusa. Una delusione non ancora consapevole, perché sempre di più, ogni notte, davanti al video illuminato, simile a un vecchio focolare, speriamo che qualcosa si verifichi, e pensiamo che quel testo o quell’amico lontano sia un po’ quel foglio-messaggio dentro una bottiglia che ci giunge dal mare (ancora Montale). Forse è così, anzi, indubbiamente mi approssimo al vero. Ma non vorrei che tutto finisse in questa illuminazione breve, in questi bagliori, in questa intermittenza dei pixel. Altri ne incontro nella mia città di scribi, e con loro qualche volta parlo e magari partecipo a qualche reading, tra il pubblico. Mi piace osservarli, mi piace entrare nel loro testo, nelle loro parole, entrare nella voce.

(in foto Moving through the poem di Peter Ciccariello)