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giulia

di Eleonora Tamburrini

Quando inizio a leggere questo libro, il nome di Giulia Schucht mi risuona in mente diminuito e trasfigurato. È lei quella Julca di certe lettere dal carcere di Antonio Gramsci apparse nella celebre edizione Einaudi, lei la moglie di un uomo non comune, piuttosto un’icona politica, filosofica, letteraria; eppure la Storia ce la riconsegna figura impalpabile, quasi onirica, la donna distante e ondivaga all’orizzonte del marito lontano martire del regime fascista. Lo stesso Gramsci le scrive spesso con un imperscrutabile affetto trattenuto, e nell’intreccio delle biografie emergono accanto a lei, quasi oscurandola, le sorelle Eugenia e Tatiana Schucht, quest’ultima interlocutrice privilegiata del carteggio con Antonio, oltre che sua unica fonte di accudimento fino alle ultime ore. Dove la Storia lascia tante lacune subentra un oblio denso e sinistro. Ma può succedere che i vuoti diventino spiragli per la ricerca, l’immaginazione, il racconto. È questo che avviene in “La vita privata di Giulia Schucht”, e questo accade a Lucia Tancredi, per sua stessa ammissione colpita dall’indicibilità della figura di Giulia e spinta da una sorta di infatuazione sulle sue tracce.
La casa editrice Ev, nata nel 2009 con sede a Treia (Mc), ancora una volta dimostra la sua attenzione per l’universo femminile, dalla redazione alle autrici, fino alle protagoniste dei racconti. Quello di Giulia Schucht è un caso limite, ma anche un possibile particolare di un racconto di genere femminile (plurale) che attraversa l’Europa del novecento fino ad oggi con il suo bagaglio di negazione, sottrazione, esclusione. Che una donna al centro di una vicenda politica e sociale tanto palpitante non generi alcuna narrazione del suo passaggio è sì un’“estinzione straordinaria” (per riprendere le parole dell’autrice), ma anche l’esito prevedibile di una Storia attrezzata alla rimozione e di una storiografia a lungo cieca alla prospettiva delle donne.
Lucia Tancredi non dimentica di caricarsi di questa responsabilità; e consulta le lettere di Giulia, la metà mancante del carteggio degli anni del carcere, ma soprattutto attinge all’epistolario del periodo precedente, quello felice, o meglio meno infelice, e maggiormente ignorato: a partire da quel fatidico 1922 in cui i due si incontrano per la prima volta e Antonio si perde nel vestito bianco di lei, nelle tempie lucenti, nel suo profilo ferino che gli ricorda la volpe. Si trovano in un sanatorio alle porte di Mosca dove sono ricoverati sia lui che la sorella di lei, Eugenia: il luogo porta in dote un imprevisto nome fiabesco, Bosco d’argento, e tutto il nugolo di predestinazioni del caso. La storia e il carteggio finiscono alla morte di Gramsci nel 1937, ma si logorano consumati da due destini di reclusione, il carcere per lui, l’andirivieni dai sanatori per lei.
Quando in una vicenda personale il pubblico ha un ruolo tanto egemonico (e Gramsci era per sua stessa ammissione votato al pubblico e al politico prima che a qualsiasi pur grande affetto), non si può prescindere dal vero: Lucia Tancredi lo sa, e magistralmente traccia il profilo della Russia rivoluzionaria e poi stalinista sfuggendo tanto al descrittivismo quanto alla lezione di storia, e passando invece per gli inverni interminabili e le estati acquose, per i concerti eleganti e gli uffici di partito straripanti carta e rigore. Gramsci risponde con l’opposizione alla deriva totalitaria e con una volontà di ferro, quella volontà che sentirà sua unica compagna negli ultimi anni, quando comprenderà di essere per tutti, anche per i “suoi”, voce scomoda, cervello da inibire. Come sempre per scene illuminanti più che per ricostruzioni ordinate, Lucia Tancredi fa riaffiorare il contraltare sommerso, la vita di Giulia da sorvegliata speciale, gli interrogatori e le intimidazioni che la trasformano poco a poco in un’esiliata dentro se stessa: fuori, i residui di un incubo, le ultime allucinazioni. La sua malattia appare in questa lettura come un rifiuto a collaborare con lo stalinismo e più ancora come una forma di resistenza a quella Storia che non le ha chiesto un contributo pensante ma ne ha preteso uno passivo e totale: la rinuncia al proprio destino, la messa a lato di se stessa, la riduzione a automa, controllore, spia. Tutto in lei crolla, perché uno spazio di purezza si preservi.
Ovunque nel libro, anche nell’irreparabile discesa di Giulia, si respira un senso di restringimento degli orizzonti, una crescente claustrofobia, un immiserimento dei confini. Vale certo per Giulia, che dallo stalinismo in fondo si ritrae, per Gramsci che ne prende criticamente le distanze, e per tutta la temperie artistica di quegli anni, l’intellighenzia, come la si chiamava allora, alla quale il regime non perdona l’opposizione, ma neppure il consenso tiepido o l’agire defilato, in definitiva, la libertà. Lucia Tancredi fa serpeggiare nel romanzo queste voci, da Mandel’štam a Pasternak, fino, implicitamente, a Esenin, Majakovskij, Blok e tutti gli altri: trasformati in nemici da perseguitare o in bandiere da appendere all’altare della propaganda, in ogni caso “poeti dissipati” per dirla con Jakobson, misconosciuti nella loro forza creatrice e privati della possibilità di interpretare la rivoluzione. La rinuncia di Giulia alla sua passione per il violino è in fondo il simbolo di tutto questo, la messa al bando dell’arte come interpretazione possibile, il suo isolamento, le accuse di astrazione; la musica diventa nel romanzo un’eco che si propaga e rimbomba nelle coscienze; è ciò che divide Antonio da Giulia, lo spirito russo da se stesso, la rivoluzione dalla sua deriva totalitaria. Non a caso Blok, in una celebre, eterodossa presa di posizione scriveva: “Con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta la coscienza, ascoltate la Rivoluzione”. Non “aderite”. Ascoltatela, sentitela dentro come musica.

Fin qui “La vita privata di Giulia Schucht” potrebbe sembrare essenzialmente un romanzo storico, e di fatto lo è: scandito per capitoli lunghi un anno, ricco di fonti, centrato sul privato della “longue durée” e nella migliore tradizione manzoniana capace di intessere il verosimile, di colmare i vuoti con quell’immaginazione che si spinge oltre la ricerca. Ma c’è di più. Quando si delinea una figura come quella di Apollon, padre di Giulia, non solo coi tratti che emergono dai documenti, ma fin nelle pieghe più sottili di uno sguardo o di un’abitudine, si capisce di essere andati oltre. Quando il personaggio del “funzionario senza galloni”, il verosimile controllore che tallona Giulia, si trasforma in un innamorato perentorio e impossibile, allora ancora una volta siamo oltre. Così come quando ci si addentra, trascinati da una scrittura sicura e coinvolgente, nelle anse dei turbamenti di Eugenia e Tatiana, di Antonio e di Giulia. La Storia appare allora intimamente posseduta, e l’empatia con queste figure reali è tanto forte da farne personaggi. Siamo oltre la biografia di Giulia, immersi nel suo mondo e in quello di tutta la sua avventurosa, indistricabile genia, siamo oltre la grande Storia. Siamo nel baratro del rimosso di una vicenda femminile del secolo scorso, ma anche nell’abisso del non detto che sta in qualsiasi racconto di famiglia: particolare, minimo, privato. E in qualunque storia d’amore.
Ecco, non sarei obiettiva se non chiudessi dicendo che “La vita privata di Giulia Schucht” è anche (e forse prima di tutto?) un romanzo d’amore. Lo stile di Lucia Tancredi, che ha sempre una fluidità e una ricercatezza difficilmente resistibili, tocca in questa dimensione vette notevoli. Giulia Schucht e Antonio Gramsci ci appaiono vicini, così straordinari negli slanci, nella resistenza, nella lontananza, e così minimi e comuni negli inciampi e nelle gelosie. Riusciamo in certi momenti anche a dimenticare la portata travolgente della realtà esterna e li vediamo in essenza: Giulia è una violinista di talento, è colta, educata all’ombra di un ossimoro fascinoso: l’aristocrazia rivoluzionaria, cosmopolita, rousseauiana degli Schucht. Antonio ha la fierezza della sua isola, è un genio politico, un costruttore di idee, sofferto e sofferente, legato a mille fili di dovere e di passione al suo ruolo. Dimenticate il gusto basso del retroscena sentimentale, non se ne avrà il minimo sentore in queste pagine (quasi fotografie, “rettangoli di tempo” per citare la stessa autrice); per tutto il romanzo e fino alla prigionia, Giulia e Antonio, marito e moglie, sono costretti a rincorrersi per l’Europa, separati dall’inclemenza delle verste o dei chilometri: come amanti, confinati nella clandestinità di stanze d’albergo ritagliate alla vita, come sconosciuti simulando incontri casuali nelle chiese. L’apice del romanticismo, la promessa sicura (e già presente) dell’infelicità.
La scoperta di una passione come questa non mancherà di sorprendere e stordire, ma arriverà almeno in parte a spiegare se stessa e il suo destino di naufragio e occultamento: troppo feroce e tumultuosa, troppo fragile per essere “accettabile” e non finire trascinata nella portata assoluta e crudele delle contingenze.
Forse può consolare la frase che chiude il romanzo e riporta le ultime volontà di Antonio Gramsci riguardo la sua eredità e il lascito dei suoi scritti; un estremo, addolorato richiamo, caduto in uno dei tanti pozzi di omissione non casuale della Storia, e qui ricondotto alla luce e alla memoria: ogni cosa è per Giulia.

La foto proviene dall’Archivio Antonio Gramsci ed è riportata a chiusura del romanzo. Giulia è con i figli avuti da Antonio, Delio e Giuliano. Giuliano non incontrerà mai suo padre.

È alle porte una bella occasione di addentrarsi in questa storia e conoscerne l’autrice: venerdì 8 marzo alle 17 al Caffè Letterario della Biblioteca Filelfica di Tolentino, Lucia Tancredi presenterà “La vita privata di Giulia Schucht”, con l’intervento della Direttrice Laura Mocchegiani e la presenza eccezionale di Serena Abrami che ricreerà le atmosfere musicali del romanzo.