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Iaia-Forte-Sandro-Lombardi-e-Elena-Ghiaurov-Foto-di-Marcello-Norberth

di Manuel Caprari

Prima o poi questo momento doveva arrivare. Premetto che io non amo il genere della stroncatura, trovo anche facile parlar male di un’opera creativa, a volte mi pare anche un modo per mostrare la propria intelligenza senza troppo sforzo, della serie “a me non mi si compra mica facilmente, ho troppo buon gusto”; soprattutto non riesco a non considerare un testo nella sua complessità e nella sua plurisemanticità; oltretutto non posso non tenere conto che nella fruizione di un’opera esiste un margine di soggettività che è irriducibile, quindi bollare uno spettacolo come brutto, con sicumera e senza beneficio del dubbio, mi pare quasi presuntuoso: non credo si possa escludere, quasi come se fosse una verità incontrovertibile, che qualcuno possa vedere la bellezza, la profondità,  l’originalità, in qualcosa che a me non convince. Ho anche un grande rispetto per ogni atto creativo, so quanta passione ci si può mettere, quanto ci si può investire emotivamente.

Detto questo, le cose a volte semplicemente non funzionano, c’è poco da fare. A questo pensavo giovedi sera,  assistendo, al Teatro Lauro Rossi,  a “Un amore di Swann”, opera teatrale ispirata alla parte più famosa del primo volume de La recherche proustiana, diretta da Federico Tiezzi,  con Sandro Lombardi, che ne ha curato anche la drammaturgia,  Elena Ghiaurov e Iaia Forte; e non è questione di mettere in dubbio la professionalità degli attori o del regista; l’inghippo non è nell’esecuzione, quanto nell’intenzione.

Perché Un amore di Swann, estrapolato dal contesto della Recherche, dovrebbe acquistare un senso diverso ma senza perdere la prospettiva più ampia a cui appartiene. Perché Proust è forse uno degli autori meno teatralizzabili che mi possa venire in mente,  e paradossalmente la sfida forse sarebbe dovuta essere quella di giocare in contropiede; per dire, se affronti uno scrittore che scrive frasi lunghe mediamente venti righe, forse la via percorribile potrebbe essere quella di fare uno spettacolo muto, o comunque coi dialoghi ridotti  all’osso; il fatto ad esempio, che nello spettacolo i tre attori passino in continuazione dall’interpretare i personaggi al narrare gli eventi in terza persona, non sembra acquisire quasi mai una valenza di riflessione sulle dinamiche dell’affabulazione narrativa, finendo anzi per sembrare un sia pur involontario escamotage per risolverne i nodi più complessi; così come la scena in cui gli attori tirano fuori i taccuini e iniziano a disquisire sulle idee di Proust a proposito di amore e gelosia, spezzando la sospensione dell’incredulità, più che metanarrativa sembra didascalica, quasi a voler esplicitare i concetti da esprimere, quasi si avesse paura di star girando a vuoto; le immagini proiettate sullo sfondo, un tripudio di rose e fuoco, rimandano a una simbologia della passione che era trita cent’anni fa e che nell’opera di Proust viene largamente superata; il risultato di queste scelte registiche è che laddove lo scrittore affonda il bisturi tanto nelle convenzioni  sociali di una società scintillante e sottilmente crudele quanto nell’incostanza emotiva e psicologica degli esseri umani, questa versione teatrale sembra ridurre tutto a questioni sterili e oziose, quasi da salotto televisivo. La recitazione è sopra le righe, a tratti addirittura leziosa;  immagino sia una scelta intenzionale, ma se si voleva rappresentare l’artificiosità della società dell’epoca attraverso l’artificiosità della recitazione, allora forse si sarebbe dovuto sottolinearla molto di più, quest’artificiosità recitativa.

Una delle regole fondamentali che mi sono sempre dato nello scrivere una recensione è quella di non andare a cercare in uno spettacolo quello che non c’è, ma di valutare quello che c’è; in questo caso, però, quello che c’è è proprio l’assenza di quello che avrebbe potuto esserci; un pezzo di teatro, e questo valga un po’ per tutte le arti, può avere una solida impostazione tradizionale, e per quanto mi riguarda va benissimo; o può essere sperimentale, estremo, decostruito, metalinguistico, e per quanto mi riguarda va benissimo; o ancora, può alternare o fondere le due cose, e per quanto mi riguarda va benissimo; ma in quest’ultimo caso l’alternanza o la fusione dei due elementi dovrebbe essere chiara, decisa, i due elementi dovrebbero essere netti, riconoscibili, fruibili, carichi di densità espressiva, in modo che il contrasto o l’armonia elevino esponenzialmente la forza dell’opera stessa. In questo caso invece il gioco è a somma zero. Troppo blandi gli elementi tradizionali, troppo ammiccanti e paradossalmente rassicuranti gli elementi di decostruzione o le trovate incongrue, che sono così smaccatamente incongrue da risultare gratuite, e così timide da non avere neanche il sapore del gesto dadaista, della decisa e convinta virata nel nonsense che renda il gusto di ribellarsi alla schiavitù della logica e rivendicare la libertà e l’autonomia della trovata ad effetto. Insomma, se si vuole osare bisognerebbe osare di più, altrimenti è meglio rimanere all’interno di certi paletti che garantiscono coerenza e coesione alla struttura; perché il risultato di questa incertezza alla base di questa pièce è che ci troviamo di fronte a qualcosa che è molto poco proustiano senza però riuscire a distaccarsi dal romanzo di partenza e spiccare il volo, e la profondità mozzafiato e vertiginosa dell’autore della Recherche non diventa né pre-testo né fulcro, ma piuttosto un’ancora, una zavorra, una palla al piede.

(foto di  Marcello Norberth)